Che strano l’effetto che può suscitare la lettura di un articolo, tipo quello che parla della questione alla ribalta in questi giorni sull’uscita del video di Andrea Sannino, giovane cantate della scena neomelodica napoletana girato all’interno del Museo di Capodimonte a Napoli.
L’articolo titolato “Bellenger, le aquile e i tacchini” è uscito ieri sulla prima pagina del Corriere del Mezzogiorno. Non so se chi lo ha scritto si è reso conto della curiosità suscitata e dei click conseguenti sulla pagina del “tacchino” posto, forse suo malgrado, o anche no, sul podio dei somari, non meritevoli di accedere alle dorate sale della conservazione museale. Sale pubbliche, in luoghi pubblici.
Ma facciamo un passo indietro. Un museo può essere molte cose, soprattutto oggi, da luogo di custodia del patrimonio artistico e di quello naturale a luogo che deve garantire la conservazione e la conseguente valorizzazione dei beni. Queste istituzioni, pubbliche o private che siano, debbono attenersi per essere ritenute tali ad una serie di standard, ampiamente delineati attraverso codici, leggi, decreti, accordi fra Enti e lettere di indirizzo.
Fra le principali caratteristiche indicate, da fiumi di documenti e buone consuetudini, vi sono, non ultime, l’interpretazione del patrimonio culturale e la stretta collaborazione con le comunità “di riferimento”. Da qui prende forma, soprattutto negli ultimi decenni, l’apertura e, se vogliamo, la “trasformazione” dei musei da meri edifici di conservazione a luoghi dinamici, di ricerca, incontro tra culture, persone, che favoriscono le espressioni dell’estro umano, in tutte le sue forme e caratteristiche.
La pandemia, fra le altre cose, ha evidenziato un problema importante, che si lega a questo nuovo concetto di istituzione culturale, la mancanza di pubblico in presenza. I mancati flussi turistici hanno quasi azzerato, nell’anno nero che da poco ci ha lasciati, gli introiti dovuti ai mancati ingressi. Questo dato di fatto, ancora di più costringe ad una riflessione sull’opportunità di spingere ancora più in là l’asticella della “sperimentazione”, di una nuova dimensione e di un diverso posizionamento dei musei nell’ambito dell’offerta culturale.
Alcuni direttori di queste istituzioni, in diverse città del Paese hanno già da tempo immaginato e in parte messo in pratica una serie di iniziative in tal senso, non ultimo a farlo è sto proprio il direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger, che secondo l’articolo del Corriere con la scelta di concedere al cantante napoletano Sannino di poter girare il video nel Museo, abbia “inciampato”, “distratto” com’era lui che sa bene “dove sono le aquile e dove sono i tacchini”.
Le istituzioni culturali esistono non solo per quello che custodiscono, esse hanno ragione di essere ciò che sono e di esprimere il senso più alto della loro natura soprattutto in rapporto al territorio e dunque alle comunità che le circondano, grazie a queste comunità esse vivono e, molto spesso, le stesse collezioni provengono da queste comunità e dal territorio circostante.
Ci sono delle differenze, ovviamente, fra piccole istituzioni locali, come ad esempio quella di cui sono responsabile (il Museo diocesano “San Prisco”) e i grandi musei di Stato italiani. Ma nella sostanza e fatte le dovute differenze il concetto non cambia. Il museo, soprattutto se pubblico, è al servizio della crescita di tutta la collettività ed in particolare di quella d’appartenenza. Non vorrei essere frainteso su questo punto, si può operare a livello locale con una visione internazionale e viceversa.
È proprio sulla questione della “sperimentazione”, che come tale può dare spazio anche a degli errori, che mi sono chiesto leggendo l’articolo del Corriere, se sono dalla parte del tacchino o dell’aquila. E già, tacchini, animali di basso livello, incapaci di levarsi in volo come le nobili aquile, volatili bruttini anche alla vista e buoni, tutto sommato, solo come carne da macello. Nell’articolo, che mi pare un giardinetto chiuso, il concetto preliminare a supporto della tesi espressa è quanto sia “inutile parlare dell’importanza delle contaminazioni o del superamento delle antitesi tra «alto» e «basso»”, o quanto sia superflua la formulazione di “vuoti sociologismi”, visto che la vera questione sono “le aquile e i tacchini”.
Ho visto il video in questione, nulla di esaltante sul piano estetico, probabilmente in linea con lo stile musicale di Sannino, personalmente avrei fatto altre scelte, avrei provato a dare dei suggerimenti ad incidere per far venire fuori al meglio possibile il luogo concesso come sfondo.
Ma il punto non è questo. Il punto sono “i tacchini e le aquile”. Il punto è la plebaglia napoletana che entra, anche se mi pare di capire, bussando e aspettando educatamente che qualcuno, magari sbagliando, apra. Una marea di tacchini che entrano, non in un centro commerciale qualsiasi ma, nel luogo della cultura alta. I ragazzacci dei quartieri, quelli di cui tutti parlano quando si tratta di farfugliare qualcosa sulla necessità di dargli spazio, accesso al sapere, al lavoro, ad una vita più dignitosa per poi dimenticarseli dopo qualche minuto. Quelli che cantano, agli angoli delle strade o mentre sfrecciano sui motorini le canzoni dei loro idoli, quelli a cui quattrocento anni fa Caravaggio avrebbe volentieri offerto un ruolo in uno dei suoi dipinti. Ragazzi che stentano ad esprimersi in italiano, anzi non ci provano proprio ad allontanarsi dalla loro lingua madre ‘o napulitano.
Un tacchino è entrato in un luogo “sacro” della cultura italiana e attraverso un video è come se avesse concesso a tutti i suoi fans, un’orda di tacchini, di entrare in quelle sale con lui. “Le aquile e i tacchini non possono stare nello stesso luogo” dice l’autore dell’articolo ed io mi chiedo, grazie e a lui: ma un museo è un luogo per sole aquile?
Salvatore Alfano