La Segreteria di Stato vaticana “auspica che la parte italiana possa tenere in debita considerazione le argomentazioni e trovare così una diversa modulazione del testo continuando a garantire il rispetto dei Patti Lateranensi”. È questo il passaggio chiave della Nota verbale della Segreteria di Stato consegnata informalmente all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, il 17 giugno e poi tramessa al Ministero degli Esteri, a Palazzo Chigi e al Quirinale.
Secondo la Santa Sede, “alcuni contenuti della proposta legislativa avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa e ai suoi fedeli”, riducendo la libertà garantita alla Chiesa cattolica in tema di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale, ovvero quelle libertà sancite dall’ articolo 2, ai commi 1 e 3 dell’ accordo di revisione del Concordato del 1984.
Nella Nota diffusa ieri dal Corriere della Sera si stigmatizza inoltre “il riferimento alla criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi fondati sul sesso” e si sottolinea che “ci sono espressioni della Sacra Scrittura e della tradizione ecclesiale del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa rivelazione divina”.
Di qui la richiesta di revisione del ddl Zan: “Non c’è la volontà di bloccare la legge, ma una richiesta di rimodulazione della legge per consentire alla Chiesa di agire liberamente sul piano pastorale, educativo e sociale”, hanno precisato fonti vaticane. La notizia della Nota verbale della Segreteria di Stato è stata confermata dalla Santa Sede con una breve nota sull’Osservatore Romano e con una intervista sull’argomento rilasciata al portale VaticanNews dal costituzionalista Cesare Mirabelli, già presidente della Consulta e ora consigliere generale dello Stato della Città del Vaticano.
I precedenti interventi della CEI
Ad un lettore attento, non possono certo sfuggire le consonanze tra i contenuti della Nota e le argomentazioni espresse già un anno da dalla Conferenza episcopale italiana, che il 10 giugno 2020 ha diffusa una Nota, firmata dalla presidenza della Cei, dal titolo “Omofobia, non serve una legge”, in cui si denuncia che “un’ eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide, per cui – più che sanzionare la discriminazione – si finirebbe col colpire l’ espressione di una legittima opinione, come insegna l’ esperienza degli ordinamenti di altre nazioni al cui interno norme simili sono già state introdotte. Per esempio, sottoporre a procedimento penale chi ritiene che la famiglia esiga per essere tale un papà e una mamma – e non la duplicazione della stessa figura – significherebbe introdurre un reato di opinione. Ciò limita di fatto la libertà personale, le scelte educative, il modo di pensare e di essere, l’ esercizio di critica e di dissenso”.
Per i vescovi italiani, “oltre ad applicare in maniera oculata le disposizioni già in vigore”, si deve innanzitutto “promuovere l’ impegno educativo nella direzione di una seria prevenzione, che contribuisca a scongiurare e contrastare ogni offesa alla persona. Su questo non servono polemiche o scomuniche reciproche, ma disponibilità a un confronto autentico e intellettualmente onesto”.
Un anno dopo, e precisamente il 28 aprile scorso, la presidenza della Cei ha diffuso una seconda Nota sul ddl Zan, dal titolo “Troppi dubbi: serve un dialogo aperto e non pregiudiziale”, al centro della quale c’è un chiaro monito: “Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’ obiettivo con l’ intolleranza, mettendo in questione la realtà della differenza tra uomo e donna”.
“Sentiamo il dovere – spiegano i vescovi – di riaffermare serenamente la singolarità e l’ unicità della famiglia, costituita dall’ unione dell’ uomo e della donna, e riconosciamo anche di doverci lasciar guidare ancora dalla Sacra Scrittura, dalle Scienze umane e dalla vita concreta di ogni persona per discernere sempre meglio la volontà di Dio”. Nella Nota della Cei, inoltre, si ricorda che “in questi mesi sono affiorati diversi dubbi sul testo del ddl Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, condivisi da persone di diversi orizzonti politici e culturali”.
“È necessario che un testo così importante cresca con il dialogo e non sia uno strumento che fornisca ambiguità interpretative”, conclude la Cei, auspicando che “si possa sviluppare nelle sedi proprie un dialogo aperto e non pregiudiziale, in cui anche la voce dei cattolici italiani possa contribuire alla edificazione di una società più giusta e solidale”.
Il luogo comune delle tasse evase
La Nota a verbale della segreteria di Stato ha provocato ieri una serie di polemiche sui media, che sono andate ben oltre la cornice del ddl Zan per coinvolgere altri ambiti legati all’azione della Chiesa, come le tasse e i tributi che secondo alcuni sarebbero evasi. Una tesi, questa, contestata senza tema di smentita dai fatti reali. Nel 2020, infatti, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato per imposte: 5,95 milioni di euro per Imu e 2,88 milioni per Ires. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato, Propaganda fide, Vicariato di Roma, Conferenza episcopale italiana e singoli enti religiosi.
M.Michela Nicolais/Sir