Laurearsi in Medicina nel pieno della prima ondata di una pandemia inattesa e travolgente. È ciò che è accaduto a Maddalena Annarumma, 28 anni, che, oltre ad essere oggi una specializzanda in Medicina del Lavoro e medico dell’USCA, è anche presidente dell’Azione Cattolica della parrocchia di San Giovanni Battista in Angri.
Abbiamo raccolto la sua esperienza e la sua opinione in merito alla situazione attuale della pandemia.
Maddalena, la laurea in Medicina è un sogno che si è avverato?
«In realtà da piccola non avevo mai pensato di diventare medico. Addirittura al quarto anno di liceo, quando i miei amici avevano già le idee abbastanza chiare sul futuro, io ero piuttosto confusa. Devo molto ad un mio professore che mi spinse a provare il test d’ingresso per la Facoltà di Medicina; test che però, al primo tentativo, non riuscii a superare. Decisi allora di frequentare una Facoltà analoga a quella di Medicina, riuscendo ad ottenere risultati molto soddisfacenti. Terminato il primo anno, accadde un evento destinato a segnare il mio futuro: la mia migliore amica, con cui avevo condiviso tutto, e che da tempo lottava contro un brutto male, morì. A quel punto avevo deciso di non provare più il test per Medicina, proprio perché la malattia aveva strappato dalla vita la mia migliore amica, ma varie persone mi spronarono a riprovare, anche in nome di quella passione per la Medicina che nella mia amica era molto forte: “Devi farlo per lei”. Così feci e ci riuscii».
Com’è stato laurearsi nel marzo 2020, con l’Italia in pieno lockdown?
«Onestamente arrivai molto stanca alla fine del percorso di studi. All’inizio di febbraio 2020 mi mancavano tre esami perché potessi laurearmi, mentre la pandemia era soltanto uno spettro lontano. Il 3 marzo diedi l’ultimo esame e due giorni dopo andai financo a prenotare il locale per la festa di laurea. L’8 marzo arrivarono le prime chiusure a livello nazionale e la mia prima reazione fu di profonda delusione. Sinceramente non avrei mai immaginato di dovermi laureare chiusa in casa davanti allo schermo di un computer».
Diventare medico mentre gli ospedali sono al collasso. Ritiene che sia stata una “chiamata”?
«Non ci ho mai riflettuto a fondo, però devo ammettere che il fatto di essermi laureata in questo periodo storico mi ha permesso di entrare presto nel mondo del lavoro e di vedere cose che mi hanno segnata. Forse la mia laurea è giunta in quel momento perché anche io ero chiamata direttamente a dare il mio contributo. Non so se questo sia stato un segno dal Cielo, però certamente è stato fonte di una grande responsabilità».
Ha iniziato a lavorare come medico dell’USCA. Che esperienza è stata?
«Ho iniziato a lavorare all’USCA nel novembre dell’anno scorso e devo dire che è stato piuttosto forte. I primi mesi sono stati difficili perché avevo paura di contagiarmi e di contagiare i miei genitori, che non sono così giovani. Vedere contagiarsi anche vari colleghi è stato qualcosa di molto pesante».
Cosa pensa delle polemiche sui vaccini?
«Sicuramente la comunicazione in merito ai vaccini non è stata molto efficiente, non tanto da parte del mondo scientifico quanto piuttosto da parte dei media e degli organi di informazione. Da un lato giustificherei anche chi, sentendo di queste reazioni avverse, ha avuto paura: come dargli torto? Il mio consiglio tuttavia è sempre quello di informarsi, se si ha la possibilità, con chi può avere maggiori conoscenze in merito. Purtroppo mi è capitato varie volte di parlare con persone che, pur ammettendo di non possedere conoscenze medico-scientifiche, si rifiutavano addirittura di ascoltare le mie spiegazioni e rassicurazioni».
Che spiegazione dà di tanta insicurezza rispetto alla necessità di vaccinarsi?
«A mio parere, non si tratta di ignoranza; forse c’è quasi un sentirsi sicuri di sé a tal punto da poter mettere tutto in discussione. Poi, fondamentalmente, c’è anche il fatto che la gran parte delle persone non sanno cosa sia effettivamente il Covid-19 e quindi a che cosa si vada incontro, perché è vero che in molti casi il virus non ha portato a gravi conseguenze, ma ad altre persone invece è andata davvero male».
Come è cambiata la malattia dall’inizio della pandemia?
«La malattia sostanzialmente non è cambiata. Certamente oggi, grazie ai vaccini, stiamo meglio; quasi tutte quelli che stanno male per il Covid-19 sono persone non vaccinate. Ma dover ricoverare una persona è sempre un’esperienza drammatica. E a finire in ospedale non sono soltanto gli anziani, ma anche giovani e persone di media età».
Cosa risponde a chi si appella alla libertà?
«Io credo che le rivendicazioni che molti fanno della libertà di scegliere se vaccinarsi o meno non sono molto reali. Non ha senso dire di voler fare della propria vita ciò che si vuole. Se proprio si vuol parlare di libertà, va detto che la libertà di ciascuno finisce là dove inizia quella dell’altro. Scegliere di non vaccinarsi non è un atto di libertà, ma di egoismo, perché il contagio è un danno che si fa non solo a se stessi, ma anche a chi ci è intorno».
Quanto ha influito il percorso di fede sugli studi e la professione?
«Fa parte di me, dunque cerco di portare ovunque il mio credo e i miei valori cristiani. Durante il percorso di studi la mia fede mi ha consentito di vedere determinate cose, e anche molti punti interrogativi della medicina, con un’ottica diversa. E a volte la fede mi ha aiutato anche a vivere in un altro modo il rapporto con la malattia».
Quali prospettive per il futuro?
«Per il momento frequento la scuola di specializzazione in Medicina del lavoro. Dunque il primo obiettivo è certamente quello di terminare gli studi e di trovare un lavoro stabile. Poi verrà il momento di creare una famiglia».
di Antonio Pontecorvo