Impegnati a prevenire l’abuso prima che nasca. È il mandato che si è dato la Chiesa alla luce dei tanti drammi perpetrati ed emersi negli ultimi decenni in tutto il mondo.
Una piaga affrontata con fermezza da papa Benedetto XVI e papa Francesco.
Padre Hans Zollner è consapevole di questo impegno. Studia e gira il mondo per formare persone capaci di affrontare questo tema. Per portare alla luce questa piaga e aiutare i minori vittime di violenza.
«È una grande sfida, perché in molte culture e contesti ancora non si discute di quanto è successo e sta succedendo. Quando viene tirato fuori l’argomento dell’abuso sessuale, nella società e nella Chiesa, molte persone semplicemente si chiudono».
Padre, allora come bisogna intervenire?
«Per portarlo alla luce serve creare un dialogo aperto e, innanzitutto, ascoltare le vittime e metterle al primo posto. In alcuni Paesi si è più avanti che in altri nel trattare la questione, questo impedisce di affrontare l’argomento degli abusi sessuali clericali in modo uniforme su scala mondiale. Ovviamente vale anche per la Chiesa poiché essa stessa è globale e richiede un movimento coerente per sradicare le cause di fondo degli abusi. Per aiutare i minori vittime di violenza è necessario creare spazi in cui si sentano sicuri di poter parlare di ciò che è successo o che sta succedendo e avere delle strutture di ascolto e accompagnamento».
Cosa è cambiato nella Chiesa da quando papa Francesco – e prima di lui Benedetto XVI – hanno iniziato un’aperta battaglia contro gli abusi sui minori?
«Dal punto di vista normativo ci sono stati cambiamenti nelle procedure e nelle norme iniziando dalle “Normae de gravioribus delictis” (2010) o dalla lettera circolare della Congregazione per la dottrina della fede (2011) con papa Benedetto, fino all’istituzione della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori (2014), la lettera al Popolo di Dio (2018), “Vos estis lux mundi” (2019) o le recenti riforme nel Diritto Canonico con papa Francesco.
Le procedure e le norme sono necessarie, ma cambiare la mentalità è più difficile. Le riforme che Benedetto XVI ha introdotto di per sé basterebbero per trattare i casi di abuso ma non risolvono magicamente un problema che è molto più profondamente radicato nella realtà di quanto noi immaginiamo. La questione, quindi, è capire come arrivare al cambiamento dell’atteggiamento. In questo senso, nel febbraio del 2019, è stato organizzato in Vaticano l’incontro “La protezione dei minori nella Chiesa” con i presidenti delle Conferenze episcopali e i superiori generali di tutto il mondo. Tanti i temi affrontati: la responsabilità dei vescovi e superiori in relazione al loro ministero spirituale, giuridico e pastorale, l’accountability, cioè a chi i vescovi e i superiori maggiori degli ordini religiosi devono rendere conto del proprio operato (o, più spesso, nel nostro caso, del loro non-operato e di quanto hanno taciuto), e della trasparenza all’interno della Chiesa».
Che risultati ha prodotto questo incontro?
«Successivamente ci sono stati ulteriori cambiamenti nelle procedure e norme attraverso il Motu proprio “Vos estis lux mundi” e la recente riforma del Libro VI sul diritto penale nel Codice di Diritto Canonico. Ma la cosa più importante è che durante questo incontro sono state ascoltate le testimonianze di vittime e sopravvissuti. Se si incontra una vittima che sta seduta davanti a noi e si ascolta il suo grido di aiuto, il pianto, le ferite che ha subito nella psiche, nel corpo, nel cuore e nella fede, non si può rimanere come prima. Se si ascolta veramente, si esce trasformati, con una vera conversione del cuore. Il processo promosso da papa Benedetto e da papa Francesco richiederà tempo. È un cambiamento che purtroppo non è così veloce come vorremmo tutti, perché il cambiamento di mentalità non avviene dall’oggi al domani».
L’abbraccio del Papa alle vittime, le richieste di perdono, la comprensione della tragedia. Come definirebbe questi momenti?
«Sono momenti di empatia, è la capacità di sentire, percepire, condividere il dolore dell’altro, la sua disperazione, la rabbia, la mancanza di speranza, l’incapacità a lenire la ferita. Il Papa ha reagito di fronte alla sofferenza, ha aperto il cuore per accogliere questo dolore. Nel luglio 2014 avevo accompagnato come traduttore due persone tedesche al loro incontro con il Papa e ho visto questa empatia profonda fino a suscitare il pianto. Il Papa è il primo rappresentante della Chiesa e di Cristo sulla terra: se il Papa piange, è l’intera Chiesa che piange, è Cristo stesso che piange con loro.
Sono gesti importantissimi che indicano i sentimenti di dolore e vergogna che si provano di fronte al fatto che dei chierici abbiano abusato della fiducia di persone, soprattutto bambini e minori di età, e che attraverso un abuso fisico, psichico, sessuale e anche spirituale abbiano recato un danno, spesso permanente, alla vita di non poche persone. Si prova vergogna e dolore sapendo che tutto questo è avvenuto per mano di persone che per vocazione dovevano essere portatori della buona novella e testimoni della vicinanza di Dio specialmente ai più vulnerabili».
Ci troviamo di fronte ad un reato che spesso viene “insabbiato” e del quale si inizia a parlare solo dopo attacchi mediatici. Perché?
«La volontà di proteggere la reputazione o l’immagine della Chiesa ha avuto come conseguenza la copertura o l’insabbiamento degli abusi in molte parti del mondo. Per questo la reazione è avvenuta spesso solo dopo lo scoppio dello scandalo, portando conseguenze ancora più gravi. La gente, infatti, non solo ha scoperto il grave scandalo degli abusi, ma è stata ulteriormente delusa dalla risposta di una Chiesa che ha pensato prima a difendersi, e l’indifendibile è che non è riuscita a mettere le vittime al primo posto. Questo ha comportato una perdita di fiducia nei confronti dell’istituzione e delle sue indicazioni».
Che risposta bisognava dare?
«Una risposta sincera e trasparente fin dall’inizio, questo avrebbe evitato il fenomeno dell’allontanamento delle persone dalla Chiesa cattolica che si sta verificando in tanti Paesi d’Europa, dove il numero dei cattolici è calato drammaticamente. Riconquistare quella fiducia dipenderà dalle risposte che riusciremo a dare oggi. Non possiamo fallire di nuovo. I vescovi, i sacerdoti, i membri delle congregazioni religiose e i laici devono essere coinvolti nei processi di riparazione e guarigione, assumersi la responsabilità laddove sono avvenute le ingiustizie e sviluppare misure preventive. Solo allora le persone sentiranno le istituzioni della Chiesa come uno spazio sicuro».
Cosa si può imparare dai Paesi che, grazie ai media, stanno facendo i conti con questa drammatica ferita?
«È un fatto che la Chiesa ha iniziato questo percorso in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti o l’Irlanda, più di 35 anni fa. Percorso che più recentemente è stato seguito anche da altri Paesi dell’Europa occidentale e dall’Australia. Una realtà che ha avuto una grande diffusione grazie ai media. Oggi sta succedendo anche in altri Paesi, che non dovranno iniziare tutto da capo. Non tutte le Chiese locali in circa 190 Paesi del mondo sono “condannate” a ripetere gli stessi errori commessi da quella ventina di Paesi che hanno vissuto anni e decadi di scandali che non sembrano finire mai. Ho visitato l’America Latina e alcune parti dell’Africa e dell’Asia dove vescovi e religiosi si impegnano per una risposta coerente e hanno il potenziale per muoversi diversamente, per agire prima di essere costretti a farlo.
Poiché l’abuso è un fenomeno globale, la Chiesa – come rete globale che dispone di persone e istituzioni in ogni angolo del mondo – è nella posizione perfetta per essere parte della soluzione e poter imparare dalle esperienze di solidarietà, umiltà e dialogo che avvengono in diverse parti del mondo e per rafforzare l’impegno di servire i più feriti e vulnerabili. Come Chiesa, i Paesi con più esperienza possono guidare quelli che ne hanno meno».
È ingenuo pensare che laddove non sia emerso nulla non si siano verificati abusi?
«Effettivamente sarebbe ingenuo pensare così. Parliamo di una questione di cui nessuno vuole parlare. Gli abusatori vogliono nascondere quello che fanno e le vittime hanno paura di rivelare l’abuso subìto. Parliamo inoltre di una questione che viene affrontata in maniera molto diversa a seconda della cultura, da cui nascono vergogna, sconforto, dubbi e diffidenza, vissute in prima persona non solo dalla vittima, ma anche dalle loro famiglie o comunità.
E, quindi, mai si dica “da noi questo problema non esiste”. È solo che non se ne parla, anche se in tutto il mondo questo fenomeno esiste e, purtroppo, continuerà ad esistere. E questo dovrà spingerci e motivarci a impegnarci per una Chiesa e un mondo più sicuri».
Come si può aiutare una vittima quando non si è specialisti in campo psicologico?
«Qualsiasi persona cui viene rivelato un caso di abuso deve essere consapevole dei propri limiti. Questo è un lavoro di squadra e non si può fare tutto da soli. Si tratta di questioni molto delicate ed è importante che la persona che si apre e rivela un abuso riceva un’assistenza adeguata fin dall’inizio. Ogni diocesi, congregazione o struttura dovrebbe identificare degli esperti in diversi ambiti (psicologico, giuridico, pastorale, spirituale, etc.) con le competenze adatte in grado di ascoltare, accogliere e accompagnare le vittime e le loro famiglie».
Ci può spiegare il ruolo del referente diocesano?
«Nel maggio 2019, “Vos Estis Lux Mundi” ha stabilito che le autorità ecclesiastiche si debbano impegnare ad offrire alle vittime e alle loro famiglie servizi specifici per l’accoglienza, l’ascolto e l’accompagnamento. In Italia, concretamente, la CEI ha indicato che si costituiscano dei servizi regionali e interdiocesani per la tutela dei minori, nominando dei referenti in ogni diocesi.
Il referente diocesano è colui che collabora col Vescovo in questo campo, aiutato da altri esperti, laici o chierici. Questo ufficio a livello della diocesi, da una parte, raccoglie le segnalazioni di abusi e offre ascolto e accompagnamento alle vittime. Dall’altra parte, sensibilizza e promuove la prevenzione attraverso la formazione all’interno della diocesi. La presenza di queste due dimensioni all’interno di ogni diocesi è importante, così come la partecipazione attiva di un team di persone competenti nei diversi ambiti professionali coinvolti».
Quanto conta la formazione?
«È fondamentale che siano persone competenti e ben formate. A questo proposito il nostro Centre for Child Protection (CCP) della Pontificia Università Gregoriana – ora diventato Istituto di Antropologia, studi interdisciplinari sulla dignità umana e sulla cura delle persone vulnerabili (IADC) – offre dei programmi online, corsi di formazione residenziale di un semestre (Diploma) e di due anni (Licenza), nonché un dottorato in Antropologia».
La pedofilia non riguarda solo la Chiesa, basti pensare al turismo sessuale nei Paesi del Sud del mondo. È possibile pensare ad una soluzione?
«Non esiste una soluzione magica. Dobbiamo essere consapevoli che l’abuso continuerà. Negli esseri umani esiste anche una componente di male che va oltre la nostra comprensione. Questo, però, non ci impedisce di lavorare e impegnarci a creare ambienti sicuri dove non ci siano occasioni di abuso, di promuovere la formazione e prevenzione affinché nella nostra Chiesa e nella società i bambini e le persone vulnerabili si sentano sicuri e rispettati.
Possiamo imparare molto ascoltando le vittime e i sopravvissuti, le loro esperienze e i processi di guarigione. È anche importante stabilire collegamenti e reti con persone e organizzazioni all’interno e all’esterno della Chiesa che lavorano in questo ambito con impegno e coerenza: ONG, istituzioni pubbliche e private».
Perché in questo percorso così doloroso spesso la vittima “diventa” il colpevole? È un problema culturale?
«Sì, ci sono certamente degli elementi culturali che influiscono nella visione che abbiamo della realtà che ci circonda. Ad esempio, qual è la visione di un bambino nella società, quale è il suo valore come essere umano la cui dignità viene rispettata?
Io lo posso testimoniare alla luce delle mie visite nei cinque continenti. Ci sono Paesi dove fino a poco fa questo tema era tabù, dove non si parla ancora apertamente di temi come la sessualità e l’affettività e ancor meno di abusi. Ci sono Paesi dove questo è considerato un “disonore”, si colpevolizza la vittima di quanto accaduto piuttosto che l’abusatore».
Gli abusi sui minori coinvolgono maggiormente gli uomini. Ma è corretto pensare che sia un problema solo maschile?
«Di fatto tutte le deviazioni sessuali maggiori (come esibizionismo, voyeurismo, sadismo ecc.) sono state considerate per molto tempo un affare quasi esclusivamente maschile. Oggi dobbiamo essere prudenti: in primo luogo, perché stanno emergendo sempre più denunce e notizie su abusi commessi da donne e, in secondo luogo, perché i recenti cambiamenti nella definizione dei sessi – con più vaghezza nella definizione delle rispettive identità sessuale – apre probabilmente anche uno scenario di abuso più frequente da parte delle donne. Fatto sta che anche le donne abusano sessualmente, anche se la loro modalità più frequente di abuso sembra essere di tipo psicologico».
Ci sono degli elementi che le persone che abusano dei minori hanno in comune?
«Sì.Il problema di fondo è quasi sempre una sessualità non vissuta bene e un desiderio sproporzionato e immaturo di potere su altre persone. Per esempio, da sacerdote o religiosa, si può arrivare a pensare di potersi prendere tutto quello che si vuole e di non sentirsi responsabile per quello che si fa. Si cerca di esprimere la propria superiorità e questo dimostra, psicologicamente parlando, che molti di coloro che hanno abusato paradossalmente si sentono deboli e impotenti interiormente. Spesso non possono affrontare una relazione tra pari o semplicemente non si sentono in grado di relazionarsi con il sesso opposto. Ci possono essere tante dinamiche diverse, comprese le questioni irrisolte sull’identità sessuale o proprie esperienze sessuali devastanti nel passato. In questo senso non ci si può aspettare che la dolorosissima realtà degli abusi sparisca una volta per sempre dalla faccia della terra.
Proprio per questo, come membri di una Chiesa il cui Signore si identifica con i più piccoli, dobbiamo impegnarci per la sicurezza delle persone vulnerabili, minori di età o adulti che siano. Non è un “optional”, fa parte integrante e integrale della missione della Chiesa di Gesù Cristo».
a cura di Antonietta Abete, Salvatore D’Angelo e don Vincenzo Spinelli