La paura del confronto, alimentata dal timore di restare feriti, genera una reazione difensiva che alimenta violenza e scatena un io totalitario che deve asservire il tu, se non addirittura eliminarlo.
“Riscontriamo che una persona, quanto minore ampiezza ha nella mente e nel cuore, tanto meno potrà interpretare la realtà vicina in cui è immersa. Senza il rapporto e il confronto con chi è diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di se stessi e della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita umana. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è diverso, ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e della propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti. L’esperienza che si realizza in un luogo si deve sviluppare “in contrasto” e “in sintonia” con le esperienze di altri che vivono in contesti culturali differenti (FT 147).
L’uomo ripiegato su se stesso continua a guardare verso le cose che lo attraggono, prigioniero della sua concupiscenza, incapace di ritrovarsi in una dimensione sia orizzontale con il proprio fratello, sia verticale con colui che lo ha redento: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo…” (1Pt 1,18-19).
Rivestirsi di nuovo della responsabilità verso il fratello, sciogliere il nodo di un io concentrato solo su se stesso, dissolve la caligine che permette di nuovo di vedere con gli occhi del cuore, le braccia si riaprono per trasformarsi in epifania, la libertà non si limita a mostrare un’immagine incorniciata della propria bontà, una propaganda al culto della personalità, ma una libertà che riacquista luce e verità in quei conflitti nei quali si entra come operatori di pace.
Scrive san Francesco in una lettera a un suo frate: “Ecco da cosa riconoscerò che ami il Signore, e che mi ami, me, suo servo e tuo: se qualunque fratello al mondo, dopo aver peccato quanto è possibile peccare, può incontrare il tuo sguardo, chiederti perdono, e andarsene perdonato. Se non ti chiede perdono, chiediglielo tu, se vuol essere perdonato. E anche se dopo pecca ancora mille volte contro di te, amalo più di quanto ami me, e ciò per ricondurlo al Signore. Abbi sempre pietà di questi disgraziati…”.
Affondare le radici nella storia del proprio luogo, riconoscendolo dono di Dio, rinunciare con forza e determinazione a uno sguardo ipocrita verso il fratello, una falsa apertura verso l’universale, implica una relazione umana, incentrata sul dialogo, strumento in potenza nella coscienza dell’uomo, che apre le porte all’Infinito, alla Totalità, ogni qualvolta lo trasformiamo in atto: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,35-36).