La rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica è una garanzia per tutti gli italiani.
Non è necessario un sondaggio di opinione per affermare che in tanti hanno tirato un sospiro di sollievo per questo esito, dopo lo spettacolo sconfortante di una gestione nevrotica e strumentale della procedura per l’elezione del capo dello Stato.
Mattarella è stato e sarà un punto di riferimento sicuro per un Paese che si trova in una fase delicatissima della sua vicenda collettiva. La coda velenosa delle conseguenze del Covid; le fratture sociali e le disuguaglianze acuite dalle pandemia; la fatica nell’attuazione del Pnrr; le incognite della ripresa economica tra crisi energetica e inflazione; le tensioni geopolitiche spinte fin sull’orlo del baratro di conflitti dalle prospettive imprevedibili: di tutto questo è sembrato non esserci traccia nel parossismo delle candidature gettate nella mischia senza curarsi dei profili istituzionali dei soggetti coinvolti o della congruità dei personaggi ipotizzati.
Per fortuna non è sempre vero che è la somma a fare il totale e lo sbocco finale è stato quello che più garantisce la continuità dell’azione del governo Draghi, all’insegna di quella stabilità di cui il Paese ha bisogno al suo interno e nelle relazioni internazionali.
Di questo dobbiamo dire grazie a Mattarella e al suo incomprimibile senso dello Stato e della comunità nazionale, ma anche al Parlamento che nel momento più buio è stato capace di indicare la via per uscire dall’impasse in cui il sistema politico di stava avvitando.
È in frangenti come questo che si tocca con mano quanto sia preziosa l’esclusione del “vincolo di mandato” sancita dall’art. 87 della Costituzione.
Una clausola di salvaguardia della libertà dei parlamentari che certamente non dev’essere utilizzata per coprire trasformismi opportunistici – e quindi dev’essere opportunamente regolata – ma che evita la riduzione del Parlamento a un insieme di pacchetti azionari gestiti dai capi dei partiti.
I partiti, appunto. Il fatto che per la seconda volta consecutiva si sia reso necessario rieleggere il presidente uscente è il sintomo di una crisi estremamente grave, la stessa che in questa legislatura ha richiesto per tre volte al capo dello Stato un surplus di saggezza maieutica e di fermezza democratica per assicurare un governo al Paese.
Se giustamente si ricomincia a parlare di riforme istituzionali, prima di mettere mano ai piani alti dell’ordinamento costituzionale forse è prioritario porre con forza la questione della riforma del sistema dei partiti, pilastri indispensabili di una democrazia parlamentare come la nostra.
È un terreno su cui anche i cittadini possono dire la loro senza bisogno di ricorrere a particolari procedure, ma esercitando un discernimento esigente sulle forze politiche e sui loro leader, magari cominciando proprio dal comportamento che i diversi soggetti hanno tenuto in questo momento cruciale della vita del Paese. Tra un anno si vota, c’è giusto il tempo per fare un’ultima verifica in questo scorcio decisivo della legislatura.
Stefano De Martis