Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio.
Il lettore avrà riconosciuto i versi iniziali di “Veglia”, scritta da Giuseppe Ungaretti il 23 dicembre 1915, durante la logorante guerra di trincea, ricordata nelle poesie de “Il porto sepolto”. Il lato vero, meno poetico ed esaltante della lotta ai tempi delle armi moderne, deprecate perfino da un combattente precoce e ostinato, come il tedesco Ernst Jünger, perché rappresentavano a suo avviso la fine dei duelli classici, quelli cantati in occidente a iniziare da Omero. Guerre portatrici di lutti e sofferenze per i capricci degli uomini, degli dei e dell’Ananke, il fato superiore addirittura a Zeus.
Fuori dall’Olimpo e al di là delle belle scene di scudi, elmi ornati e preziose spade, ci sono solo dolore, morte, lutto. Se si pensa che anche il poeta cinese Li Po, e siamo nell’ottavo secolo dopo Cristo, deprecava ironicamente la guerra – “Gli uomini sono dispersi e imbrattati sull’erba del deserto/ e i generali non hanno portato a termine nulla” – allora avremo un quadro piuttosto differente dall’immaginario collettivo sul pensiero degli antichi nei riguardi della guerra.
Come, più di mille anni dopo, nella poesia ungarettiana, che pure in guerra ci andò volontario, e come nella gran parte della letteratura. Si pensi che alla radice della scelta di uno dei più grandi poeti del Novecento, Clemente Rebora, di abbandonare la vita di prima e di entrare in convento c’è stato soprattutto l’orrore della grande guerra, anche da lui vissuta in trincea a contatto con la verità oltre la propaganda e la celebrazione: “C’è un corpo in poltiglia/ con crespe di faccia, affiorante/ sul lezzo dell’aria sbranata” (“Voce di vedetta morta”).
Eppure l’uomo potrebbe vivere in pace, a contatto con la natura e nel rispetto del creato, mentre la guerra non conosce limiti e rispetto per alcunché: “Rintocco funebre d’un mondo amato troppo, sento la scalpiccio dei mostri su una terra senza sorriso”, scrive il grande poeta francese René Char quando i carri armati nazisti entrano nel suo paese.
E d’altronde, se vogliamo passare alla narrativa, anche sul versante germanico le cose non sono viste diversamente, come nel celebre “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque, dove giovanissimi infervorati dalla propaganda devono fare i conti, tragici, con una realtà assai diversa da quella propinata dalla propaganda, da alcuni insegnanti e dal mito dell’eroe che, come abbiamo visto nel “guerriero” Jünger (passato, dopo l’abbandono del nazismo, alla celebrazione della natura con “Sulle scogliere di marmo”) , lascia presto spazio alla disillusione.
Ma non solo il Novecento: il pacifista Tolstoj, il cui pensiero sarà ripreso da Gandhi, narra nello sterminato “Guerra e pace” l’invasione delle armate napoleoniche in Russia, l’incontrarsi e perdersi di amanti, nobili, ufficiali e il tramonto, nel cuore dei personaggi più profondi, dei miti aristocratici e borghesi: la semplice vita in campagna a contatto con la natura sembra -non solo in questo romanzo- l’unica possibilità da parte dell’uomo di redimersi e tornare ad una vita degna di questo nome.
E per comprendere cosa significhi guerra oggi, dovremmo allora leggere le prose e le poesie dei sopravvissuti alle atomiche su Nagasaki e Hiroshima, come la poetessa Shinoe Shoda: capiremmo come le pulsioni di grandezza dei grandi causano sofferenze indicibili alla gente comune che ha assunto inconsapevolmente la funzione di agnello sacrificale.
E questo lo si constata ovunque, da “La storia” di Elsa Morante a “Educazione europea” di Romain Gary, e, per tornare alla poesia, al Quasimodo che ricorda “la madre che andava incontro al figlio/ crocifisso sul palo del telegrafo” durante la seconda guerra mondiale in “Alle fronde dei salici”: con il richiamo al Salmo 136 da parte di un poeta laicissimo e politicamente impegnato entra prepotentemente in gioco l’attualità delle Scritture.
Sono riprese non solo nella letteratura (basti pensare all’Eliot del “Mercoledì delle ceneri”), ma anche in quel sottile confine tra poesia, fede e canzone segnato da Dylan, Cohen, Baez e dal Pete Seeger che cantava, accompagnato dalla sua chitarra, ispirato dall’Ecclesiaste: “Un tempo per amare, e un tempo per odiare/ e un tempo per la pace, lo giuro che non è troppo tardi”.