L’agricoltura è ormai senz’acqua. E non si tratta di una siccità passeggera, risolta dopo qualche settimana da piogge ristoratrici. Qui, ormai, si parla apertamente di cambiamento climatico radicale. Che, di fatto, pare abbia capovolto la cartina geografica del Paese: il nord che ha sete, il sud che, spesso, affoga. Gli agricoltori e i tecnici se ne sono resi conto da tempo, meno, forse, le istituzioni e la politica.
“Ogni giorno che passa, disegna sempre più un quadro di conclamata, grave siccità per i mesi a venire nelle regioni del Nord Italia. Ancora una volta, ci apprestiamo all’evenienza, incapaci di politiche di visione e coesione con gli Stati confinanti per la gestione delle risorse idriche transfrontaliere, così come fra le Regioni ed i molteplici interessi gravitanti attorno alla risorsa acqua”, ha sintetizzato qualche giorno fa Massimo Gargano, direttore generale dell’Associazione Nazionale dei Consorzi per la Gestione e la Tutela del Territorio e delle Acque Irrigue (ANBI).
Che poi ha insistito: “C’è un evidente delta tra la percezione del problema e la capacità di risposte concrete di fronte ad un’emergenza climatica, che ormai è strutturale”. Ancora una volta bastano pochi numeri per capire. In un anno, dice ANBI, gli incendi son cresciuti del 320% e la desertificazione del 21% sul territorio italiano. I conti indicano danni per circa un miliardo all’agricoltura. Poi altri dati precisano la situazione. Secondo ANBI, il territorio continua ad essere attrezzato per raccogliere solo l’11% dei 300 miliardi di metri cubi d’acqua, che annualmente cadono sulla Penisola.
Ad essere deficitarie sono soprattutto le regioni settentrionali, penalizzate quest’anno anche da apporti nivali inferiori fino all’80% rispetto alla media. Ricorda poi l’ANBI che il 91% dei comuni italiani è toccato dal rischio idrogeologico e l’83% delle frane europee è registrata in Italia; ogni anno gli eventi naturali causano mediamente 7 miliardi di danni, ma solo il 10% viene effettivamente ristorato. Senza dire del fatto che il 60% delle condotte ha più di 30 anni ed il 25% addirittura più di mezzo secolo.
Tutta colpa dell’agricoltura che non è stata capace di risparmiare abbastanza acqua, si potrebbe dire. E si direbbe una cosa non vera.
La produzione agricola, infatti, è già riuscita a ridurre del 40% circa i suoi consumi idrici. Il fatto è che a non funzionare pare sia la gestione generale delle acque, con pochi invasi e molti depuratori che non funzionano a dovere.
I risultati di tutto questo sono davanti agli occhi di tutti.
“La siccità nel bacino del Po – ha ancora una volta sottolineano pochi giorni fa la Coldiretti -, minaccia oltre 1/3 della produzione agricola nazionale, fra pomodoro da salsa, frutta, verdura e grano, e la metà dell’allevamento”. Stando alle ultime rilevazioni (fonte Osservatorio sulle crisi idriche riunitosi dell’Autorità distrettuale del Fiume Po-Ministero transizione ecologica), il grande fiume soffre fino al 40% di portata in meno che diventa 60% in meno negli affluenti. Oggi, in uno dei punti tradizionali di rilevazione della portata (il Ponte della Becca), l’acqua che vi scorre è meno di quella di Ferragosto. Tutto senza dire dei grandi laghi.
La parola d’ordine di fronte a tutto questo è una sola: risparmio (di acqua). Che equivale a grandi investimenti.
Anche in questo caso i coltivatori ci hanno già pensato. “Per risparmiare l’acqua, aumentare la capacità di irrigazione e incrementare la disponibilità di cibo per le famiglie è stato elaborato e proposto insieme ad ANBI un progetto concreto immediatamente cantierabile nel Pnrr – ha più volte ricordato Coldiretti – un intervento strutturale reso necessario dai cambiamenti climatici caratterizzati dall’alternarsi di precipitazioni violente a lunghi periodi di assenza di acqua, lungo tutto il territorio nazionale”.
Si pensa, in altri termini, alla realizzazione di una rete di piccoli invasi con basso impatto paesaggistico e diffusi sul territorio, privilegiando il completamento e il recupero di strutture già presenti. E si pensa anche ad una progettualità già avviata e da avviarsi con procedure autorizzative non complesse, in modo da instradare velocemente il progetto e ottimizzare i risultati finali. L’idea, cioè, è di “costruire” senza uso di cemento per ridurre l’impatto ambientale, laghetti in equilibrio con i territori, che conservano l’acqua per distribuirla in modo razionale ai cittadini, all’industria e all’agricoltura, con una ricaduta importante sull’ambiente e sull’occupazione. In attesa di tutto questo, però, gli stessi fiumi d’Italia hanno una gran sete.
Andrea Zaghi