Lo scenario complessivo del momento che stiamo attraversando è piuttosto buio. Siamo appena usciti (forse) da una pandemia che ha letteralmente bloccato le nostre vite e in particolare quelle dei più giovani e improvvisamente siamo stati catapultati in un incubo di morte come la guerra.
Un conflitto che è, certo, in Ucraina, cioè abbastanza lontano geograficamente dalle nostre case e dalle nostre scuole, ma in realtà le occupa con la sua presenza mediatica, con la preoccupazione delle famiglie, con le proiezioni e l’immaginazione – per la prima volta messa alla prova, in particolare da parte dei ragazzi e delle ragazze delle scuole – di conseguenze nefaste per tutti.
Non solo. L’arrivo dei profughi, la macchina dell’accoglienza, la solidarietà messe in campo in Italia e non solo, permettono un incontro ancor più “ravvicinato” con la realtà della sofferenza e della guerra.
Nello stesso tempo accendono qualche lampadina per illuminare lo scenario buio detto all’inizio: vedere infatti azioni concrete di vicinanza e partecipazione, magari aderirvi ciascuno con i mezzi che ha – e le scuole, ad esempio, con l’attenzione dovuta alle informazioni oltre che alle innumerevoli iniziative che nascono dalla creatività degli istituti scolastici italiani – permette allo stesso tempo di immergersi nella realtà “dura e cruda” e insieme di prenderne le distanze, mantenendo quella riserva di umanità che significa non solo propensione all’aiuto reciproco, ma anche sforzo di comprensione e analisi critica, “armi” decisive contro qualsiasi conflitto.
La scuola, fatta davvero, è apprendistato di pace.
E oggi questa convinzione deve conquistare sempre maggiore consapevolezza, unita al fatto che i nostri giovani si trovano ad affrontare le emergenze in una condizione di fragilità speciale.
È recentissima una ricerca che viene da Bergamo e ha coinvolto 37 istituti bergamaschi (scuole superiori e medie) con un focus sui comportamenti a rischio nella fascia 13-18 anni. Sono stati distribuiti agli studenti 17mila questionari per indagare in particolare stili di vita e dipendenze.
Un campione di mille è già stato raccolto e studiato – le risposte vengono in media da diciassettenni – e i risultati mettono in evidenza debolezze di cui spesso si parla ma che i numeri denunciano con fredda lucidità: un dato, ad esempio, riferisce di come il consumo di alcolici sia ampiamente diffuso e addirittura il 47,3% del campione è arrivato almeno una volta a ubriacarsi.
Dipendenze: da alcol, da fumo e da “tecnologia”. Tra i dati emerge che i ragazzi trascorrono in media 9 ore al giorno attaccati al video, tra tv, smartphone, videogame e chat. Lo sanno bene – senza bisogno di troppe indagini – tanti genitori che quotidianamente combattono una battaglia persa nelle stanze di casa.
Senza andare oltre, ecco la domanda che si pone che fare? E come?
Parlare di alleanza educativa è forse scontato – lo si dice spesso – ma resta il termine più adeguato da considerare. Intendendo con alleanza un aumento di consapevolezza della situazione e di fiducia reciproca tra gli attori responsabili dei percorsi educativi dei nostri giovani.
Il punto
La scuola, che pure ha bisogno di crescere in credibilità, può e deve essere punto di riferimento. Perché vi si trovano dei professionisti; perché le famiglie sono sempre più impoverite dal punto di vista educativo e intasate da mille problematiche – si pensi alla crisi del lavoro –; perché ha la possibilità di coordinare interventi efficaci. È un compito difficile, lungo, ma ineludibile.
Alberto Campoleoni