«Ah, che bell’ ‘o café. Pure in carcere ‘o sanno fa», cantava Fabrizio De Andrè. Lui si riferiva alla bevanda. Noi alla miscela. La dimostrazione è la torrefazione in rosa della cooperativa Lazzarelle, una realtà nata nella casa circondariale femminile di Pozzuoli, uno dei quattro istituti di pena per detenute presenti in Italia.
Il progetto muove i primi passi nel 2010, per volontà di alcune donne che per motivi di studio entrano in contatto con la realtà carceraria puteolana.
«Parlando con le detenute – spiega Imma Carpiniello, presidente della cooperativa Lazzarelle – abbiamo capito che a loro mancava un lavoro. Cominciammo ad immaginare qualcosa che potesse darle questa occasione. Per evitare di pensare ad un progetto sociale che avesse una data di inizio e una data di scadenza, immaginammo di mettere su una realtà produttiva con connotazioni particolari».
Perché il caffè?
«Ci piace vincere facile. Siamo di Napoli! Pensammo di fare qualcosa di tipico della nostra città. Immaginammo di mettere insieme due elementi deboli del mercato: i piccoli produttori e le donne che sono un elemento vulnerabile sul mercato del lavoro, a maggior ragione se detenute. Il carcere è cambiato molto in questi anni, ma quando siamo entrate c’erano attività molto stereotipate: perline, decoupage. Tutte cose belle, ma che non davano una formazione e la possibilità di lavorare. Il caffè, poi, è stato sempre un elemento di lavoro maschile, si parla di mastro torrefattore. Noi abbiamo cercato di ribaltare questa logica inventando la figura della mastra torrefattrice che non esisteva».
Perché Lazzarelle?
«Viene fuori da un processo partecipativo tra noi operatrici e le prime 15 donne che avevano fatto il corso di formazione».
Avete trovato resistenze?
«All’inizio tra le detenute. Erano abituate a progetti a scadenza. Temevano che finissero i soldi e saremmo andate via. Noi cercavamo di spiegare che volevamo fare un’impresa per rimanere. Infatti, reinvestiamo sempre all’interno della cooperativa quanto guadagniamo: in attrezzature, materie prime, contratti. Dopo 10 anni abbiamo vinto anche queste resistenze».
Quante donne sono passate?
«Circa una settantina. Abbiamo un turnover molto alto».
Perché è una casa circondariale, quindi, con pene non troppo lunghe?
«Esatto. Noi, poi, lavoriamo all’interno del carcere, ma non siamo nell’area detentiva. Quindi le donne che vengono da noi hanno già espiato metà della pena e poi possono accedere al lavoro esterno. Adesso, però, con il progetto del Bistrot in galleria Principe anche quando possono accedere al lavoro esterno continuano a lavorare con noi e in questo modo si completa il percorso detentivo».
Ed hanno un contratto, cosa che prima era un miraggio.
«Sostanzialmente sì. Lavoriamo con i contratti collettivi della cooperazione sociale. È stata una scelta sin dall’inizio. Chiediamo puntualità, professionalità. Il nostro è un lavoro duro. Quindi, noi dobbiamo dare per questo impegno. Il turnover ci crea difficoltà burocratiche. Tuttavia, abbiamo preferito contrattualizzare una donna in meno, ma dando tutti i diritti e le garanzie. Probabilmente non hanno mai visto un contratto, soltanto conoscendo quali sono i loro diritti quando usciranno potranno reclamarne altri».
Donne «protagoniste attive del loro cambiamento», si legge sul vostro sito internet. Arrivare a questa consapevolezza richiede un grande lavoro?
«Quando si parla di povertà educativa e di dispersione scolastica il risultato sono le carceri, sia maschili che femminili. Abbiamo donne che non hanno frequentato la scuola o l’hanno lasciata presto. Diventano un’appendice familiare, spesso del loro compagno che le coinvolge in attività criminali. Attraverso il nostro caffè avviamo un processo di capacitazione: si rendono conto di essere capaci di fare qualcosa. La nostra torrefazione è una fabbrica a tutti gli effetti. Il chicco arriva verde e lo consegniamo imbustato. Si rendono conto che quella cosa l’hanno fatta loro. Attraverso il lavoro quotidiano, il parlare, il mettersi in discussione, dagli argomenti di cronaca ai programmi televisivi, si arriva a demolire determinati stereotipi, pregiudizi e schemi nei quali sono ingabbiate. Credono che il loro destino sia ineluttabile, che non possono avere di meglio. Noi tendiamo a insinuare il dubbio che non sia così e parte il cambiamento».
Qual è la storia simbolo delle Lazzarelle?
«Ogni storia ha lasciato un pezzo importante dentro di noi. Tanti sono gli elementi che ci fanno riflettere, anche i più banali. Nel periodo dell’emergenza rifiuti abbiamo stressato tutte sulla raccolta differenziata. Una detenuta di ritorno da un permesso mi ha raccontato che era stata 20 minuti con un fazzolettino in mano perché non sapeva dove cestinarlo e le dispiaceva buttarlo nell’indifferenziato. Mi disse: “A casa mia nun sanno campa’”. Questa è la cifra del cambiamento che si può attivare».
Ci sono stati anche dei fallimenti, delle delusioni?
«I fallimenti sono all’ordine del giorno, nella progettazione sociale vanno tenuti in conto. Delusioni sì. Magari fai un lavoro enorme e poi ti accorgi che dopo essere ritornate nel loro ambiente, aver incontrato i loro compagni, c’è quella coazione a ripetere gli stessi schemi, gli stessi errori. Tuttavia poche sono rientrate in carcere».
La pandemia è stata una tagliola per tutti. Come avete affrontato questo periodo?
«In questi due anni molte hanno avuto delle difficoltà. Inoltre, c’è stato un aumento di ingressi in carcere. Ma noi abbiamo anche aperto il Bistrot nel luglio del 2020».
Una scelta coraggiosa?
«Sì, ma dovevamo farlo. Era tutto pronto. È venuta a lavorare una donna dopo il percorso in carcere. È stata la prima ad uscire. Prima di Natale 2020 c’è stata una seconda chiusura. Lei ha ricevuto gli arresti domiciliari. È tornata quando abbiamo riaperto a marzo 2021: ci siamo rese conto che tutto il lavoro fatto era andato in pezzi. Con la chiusura del Bistrot e il rientro nel proprio contesto c’era stata una regressione enorme. Se devo indicare un fallimento, il Covid lo è stato. Oltre ad aver riportato alcune donne che lavoravano con noi e vivevano in una zona grigia, le ha costrette in difficoltà economiche e sociali».
Qual è il prodotto che più vi rappresenta?
«La nostra miscela classica di caffè. Quella con la quale abbiamo cominciato».
Lazzarelle lancia un messaggio di apertura, tolleranza, non discriminazione, inclusione. Un esempio concreto di cui abbiamo tanto bisogno nel nostro Paese. Non trova?
«Penso che siamo ancora in una situazione in cui il patriarcato è molto forte. Non so quanto possiamo essere da modello o da esempio. Penso sia necessario un cambiamento culturale. Non possiamo immaginare un mondo in cui i due generi non siano sullo stesso piano. Noi ci vantiamo di essere un’impresa femminile, abbiamo un consiglio di amministrazione femminile, lavoriamo con le donne, però questo non basta se non facciamo questo scatto. Se questo lavoro non cominciamo a farlo dalle giovani generazioni avremo ancora tante Lazzarelle. Io, invece, non vorrei avere più donne da impiegare. Vorrei che non fossimo necessarie».
Il nostro augurio è che si possa passare presto dai versi di De Andrè a quelli altrettanti famosi di Domenico Modugno. Non «pure in carcere ‘o sanno fa», ma «sulo a Napule ‘o ssanno fa’» e con la miscela Lazzarelle in tutto il mondo.
Salvatore D’Angelo
Prodotti sostenibili
Lazzarelle nasce con il caffè macinato e in grani, nel tempo si aggiungono cialde e capsule, infusi, tisane, una squisita crema spalmabile, bomboniere solidali. Due anni fa arriva il Bistrot nella centralissima galleria Principe di Napoli, di fronte al Museo nazionale e a pochi passi da piazza Dante a Napoli. I prodotti provengono dalla filiera del commercio equosolidale e da coltivazioni biologiche. Non si trovano nei supermercati. Possono essere acquistati sul sito internet e in negozi e botteghe artigiane e familiari, per un commercio a misura d’uomo.
Le donne detenute
Erano 2.250 le donne presenti negli istituti penitenziari italiani al 31 gennaio 2021 – 26 delle quali con figli al seguito – pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta.
Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 549 donne, meno di un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 donne sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili.
Dal XVII rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone