Niente fuochi d’artificio per la fine dello stato di emergenza. Non c’è nulla da festeggiare. Sul terreno ci sono troppi caduti per far dimenticare in fretta, quasi cancellati con un colpo di spugna, i due anni che hanno messo il mondo in ginocchio.
Abbiamo sofferto noi occidentali, abituati a non dover chiedere nulla, sempre ovattati nelle nostre comfort zone. Ancor di più hanno pagato, e stanno pagando, i Paesi del terzo mondo, alle prese con una pandemia che sembra non esserci solo perché si parte da un punto notevolmente più svantaggiato e precario del nostro. Nella immensa miseria che caratterizza quei luoghi, il Covid-19 ha rappresentato solo l’ennesima piaga che probabilmente non guarirà mai.
Mentre noi abbiamo fatto carte false per vaccinarci o – un peccato contro l’umanità – brigare per non farlo, in Africa è protetto appena l’11% della popolazione. I programmi vaccinali per i Paesi poveri procedono con la solita lentezza: oltre a causare morti che si potrebbero evitare, lasciare interi continenti senza copertura vaccinale, permette al coronavirus di diffondersi, mutare e dare vita a nuove varianti.
Guardando le pagine di Insieme di un anno fa, la vice direttrice Antonietta Abete mi ha fatto notare che la bacheca era zeppa di cordogli per persone morte con il Covid-19. Se non è più così è perché siamo stati attenti alle indicazioni di prevenzione e profilassi. Siamo stati bravi, sì, ma dobbiamo tenere conto che ci sono state riservate opportunità che non tutti nel mondo hanno avuto.
La fine dello stato di emergenza non ci deve, dunque, donare una effimera frenesia.
La nostra società, le nostre vite sono cambiate. In questi giorni udiamo a distanza l’eco delle bombe che piovono sull’Ucraina. Ci viene chiesto uno scatto di maturità e responsabilità. È vero che siamo tutti stanchi. È vero che avremmo bisogno di evadere. È vero che desideriamo rivivere dei momenti che questa pandemia ha sospeso. Tuttavia, siamo cauti e prudenti. Solo uno sciocco penserebbe che con la fine dello stato di emergenza finisca d’emblée anche la pandemia. Sarebbe troppo bello.
Non sappiamo cosa ci riservano le prossime settimane. Tratteniamo le polveri negli armadi ancora per qualche mese. Lo dobbiamo a chi non c’è più. Ce lo chiede questo clima di guerra e austerità che minaccia le nostre città. I nostri fuochi di artificio siano gesti di carità concreta e spirituale verso i fratelli che hanno bisogno di amore e calore, non chiasso e frastuono. Ne va della nostra credibilità di uomini e donne impegnati a costruire un domani migliore.
«La festa è un prezioso regalo di Dio; un prezioso regalo che Dio ha fatto alla famiglia umana: non roviniamolo!», raccomandava papa Francesco alle famiglie riunite nell’aula Paolo VI il 12 agosto 2015.