Maria, un fascino senza fine

Non solo Dante. L’irrappresentabile Grazia mariana si manifesta nella storia di ognuno.

Maria, un fascino senza fine. Non solo Dante, certo, anche perché, come giustamente ha notato qualcuno, la più bella poesia mariana è quella dell’inizio di tutto, il Magnificat (Luca, 1, 46-56): e però la Vergine del Fiorentino appare come un punto di svolta, una sorta di ianua, porta o passaggio, tra oriente e occidente.

L’intangibilità contraria alle “finzioni” dello spazio- tempo dell’icona sacra, piana e fissa nello sguardo è in realtà, ce lo hanno ripetuto nel Novecento Evdokimov e Florenskij, la vera realtà della Tutta Santa, impossibile da definire nella prospettiva e nella imitazione naturalistica.

Quel “figlia del tuo figlio” dell’ultima cantica è l’accettazione di questo mistero irrappresentabile e indicibile se non con le approssimazioni dell’umano pensiero. La sua benignità, dice Dante, è talmente alta che “liberamente al dimandar precorre”.

Certo, nella finzione poetica è san Bernardo che parla e intona questa giustamente celebre preghiera, ma Maria è presente sin dall’inizio del Viaggio, quando, nel canto secondo dell’Inferno, invia prima Santa Lucia e poi Beatrice in soccorso di un uomo minacciato dal peccato e dalla mancanza di senso.

Non è la negazione dell’immobilità apparente dell’icona bizantina, ma il suo completamento. Perché è vero che l’immagine sacra è immobile in quanto siamo noi che ci muoviamo di fronte alla sua eternità, che solo con il segno fisso può essere suggerita, ma è altrettanto vero che l’irrappresentabile Grazia mariana si manifesta nella storia di ognuno.

E non è un caso che qualcuno abbia visto nell’omaggio dei trovatori provenzali alla signora distante e abissalmente altrove il simbolo stesso della devozione alla Non-Toccata, sotto il mascheramento dell’amore umano, anche se rispettoso e non legato al possesso.

Tesi affascinante, certo, che ha trovato un seguito là dove non ci aspetteremmo, tanto da passare inosservato – colpevolmente – al vaglio di gran parte della critica militante. Mi riferisco alla parte VII del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”, che narra la morte del protagonista, il principe Fabrizio di Salina. Qui avviene un episodio che fa di questo romanzo qualcosa che travalica il genere storico, cui pure apparterrebbe, e che si avvia verso strade incognite.

Sul letto di morte del principe giunge una presenza che gli altri non percepiscono: era lei, “la creatura bramata da sempre” che “gli apparve più bella di come mai l’avesse intravista negli spazi stellari”, e quell’allusione alle stelle deve farci pensare ed andare oltre la passione del principe per l’astronomia. Un modo laicissimo, certo, per intendere qualcosa che va oltre le possibilità umane di spiegare e razionalizzare.

Ma anche Petrarca, il poeta fissato su un’unica figura femminile, per certi versi assai simile, benché sei secoli prima, all’apparizione del Gattopardo, mette a sigillo, come l’Alighieri, del suo Canzoniere, l’invocazione a Maria dal celebre inizio “Vergine bella, che, di sol vestita”.


Qui emerge tutta la modernità della spietata auto-analisi di una monomania che lo ha portato, come gli rimprovera nel “Secretum” sant’Agostino, ad amare la creatura al posto del Creatore, tanto da chiamare con il nome dell’impietrante Medusa la donna un tempo tanto amata.

Se è per questo, un altro cantore del carpe diem rinascimentale, Lorenzo il Magnifico, ha intessuto una lode e una preghiera alla Madre di Dio pur restando nella celebrazione della bellezza, stavolta non più fugace: “Quant’è grande la bellezza/ di te, Vergin santa e pia!”.

E anche una poetessa tra le più grandi del Novecento, Alda Merini, aveva colto Maria all’interno di una prospettiva pittorica suggerita da Antonello da Messina, e nella percezione di un oltre che abbatte il previsto e la saggezza dei libri, perché, dice la Vergine, “Mi sono aperta come un libro davanti a Te,/ un libro pieno di misure terrestri”.

Ancora la bellezza svincolata dalla materialità e divenuta misura interiore del mondo è presente in un poeta che non poteva certo essere accusato di estetismo, vista la sua rinuncia al mondo, alla fama e alla letteratura stessa.

Clemente Rebora, divenuto sacerdote, si rivolge a Maria come alla “Tuttabella”, che compie il miracolo quotidiano di ricordare l’affinità tra creato e Creatore:
“E tu, la Pura il Creatore esprimi/ ond’ogni creatura a lui somigli”.

E, a coronamento di una presenza costante, seppure discreta, ecco che tutto torna, come nella curvatura di uno spazio-tempo, quello dell’umana poesia, mai uguale a se stesso.

Perché tra i trenta e i quaranta del Novecento con “I quattro quartetti” di Eliot torna Dante: la “Signora il cui santuario sta sul promontorio”, Colei che “prega per tutti quelli che sono in mare” è “Figlia del tuo Figlio, / Regina del Cielo”. In quegli stessi anni il poeta aveva cantato l’amore della Vergine e per la Vergine in versi che sembrano una lontana eco dell’amore provenzale per la misteriosa Madonna, con parole che sfiorano il mistero indicibile:

Sorella benedetta, santa madre, spirito del giardino, (…)
E spirito del fiume, spirito del mare,
non sopportare che io sia separato
e a Te giunga il mio grido
”.

Marco Testi

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