Molto probabilmente sta cambiando qualcosa nel mondo del lavoro. Ancora il numero delle persone in cerca di occupazione non è tornato ai livelli pre-crisi. Però si stanno verificando due fenomeni che rivelano le difficoltà strutturali del mercato del lavoro italiano e l’impreparazione ad affrontarle.
Da un lato molti imprenditori specialmente nel Nord del paese – ma non solo – e nel settore del turismo e dei servizi non riescono a trovare personale e iniziano ad aver timore di non riuscire a rispondere alle richieste dei clienti per l’estate.
La prima dopo due anni di Covid 19 in cui le misure di sicurezza si sono allentate con la speranza di riavviare i motori di tutto il settore. Dall’altro lato si ravvisano diversi casi di dimissioni. È indicativo quanto accade in Lombardia e Veneto, dove diversi dipendenti si dimettono da un lavoro a tempo indeterminato.
I fenomeni hanno radici diverse, ma rivelano le incongruenze di un sistema.
Nel primo caso alcune voci iniziano ad attribuire la scarsa risposta alla domanda di lavoro all’introduzione del reddito di cittadinanza. I giovani – e meno giovani – preferirebbero stare a casa con la sicurezza di percepire un sussidio. Si trascurano, però alcuni elementi: alcune volte le proposte economiche sono di poco superiori rispetto al sussidio, che già offre un reddito minimo di sussistenza (è bene ricordarlo).
In molti casi i lavori stagionali creavano working poor – cioè lavoratori poveri che non riescono a raggiungere un reddito sufficiente a vivere dignitosamente – in altri casi erano sono esperienze di “semi-sommerso”: c’è un contratto di lavoro che copre una parte dell’orario, poi c’è la richiesta di ampliare gli orari coperti da un “fuori busta”.
Si evitano i giorni di riposo, si moltiplicano i turni, tanto è per qualche mese – ti riposerai quando termina il contratto. Il reddito di cittadinanza ha messo le persone in grado di poter rifiutare il ricatto. Ora bisogna innalzare la qualità della proposta.
Il secondo caso rivela l’insoddisfazione degli overskilled, cioè le persone che per avere una stabilità contrattuale hanno accettato lavori che richiedono competenze minori rispetto a quelle che sono state acquisite. In Italia la quota dei lavoratori sovraistruiti è molto alta: toccava, nel 2018, 37,4% secondo le rilevazioni Inaap.
Anche in questo campo qualcosa sta cambiando. Una parte di questi lavoratori, che prima limitava le sue aspettative in favore di maggiore certezza, ha deciso di cambiare prospettiva, di cercare un lavoro “vocazione” e un lavoro meno legato ai “tempi fissi”.
Questi due fenomeni ci rivelano che il cambiamento richiesto al mercato del lavoro, non è tanto giuridico ma culturale. Se non cambia l’approccio ai lavoratori delle aziende ci attende un periodo di forte instabilità.
Andrea Casavecchia