«Cresciuti a pugni in faccia, a Caritas in pancia, coi vestiti di marca, poveri con marca». Quando ho sentito quel «Caritas in pancia» ho drizzato le orecchie. La frase è estratta da un brano trap. Nel videoclip ci sono dei ragazzi che mostrano armi, pallottole e droga. Sono i figli delle nostre periferie.
Nel caso specifico, si tratta di giovani residenti in tre comuni delle province di Vercelli e Biella. Il set è una casa popolare di Santhià.
Nei giorni successivi alla diffusione in Rete, i carabinieri hanno avviato una serie di indagini. Durante le perquisizioni, a casa di quattro di loro sono stati trovati: coltelli, pugnali, machete, munizioni, un revolver ad aria compressa e una carabina calibro 9 detenuta illegalmente.
Possiamo affermare che nelle nostre città non esistano realtà simili? Per nulla. Siamo tutti consapevoli che i nostri Bronx siano terreno fertile di criminalità e violenza. Devianze che trovano nei disservizi, nel disagio e nella ghettizzazione, che gli infliggiamo, il migliore humus.
Probabilmente i nostri fenomeni sono autoctoni. Gomorra docet. Per questo facciamo anche attenzione alle scelte musicali. Nelle periferie del Nord, come in quella della canzone trap, a contrapporsi sono baby gang composte da seconde generazioni di extracomunitari. Non per questo bisogna abbassare la guardia o puntare il dito solo contro determinati gruppi.
Ma cosa c’entra la Caritas con quel video? Nulla. Eppure è tirata in ballo. Probabilmente perché legata ad una concezione stereotipata di aiuto prettamente materiale. Sterile. Una circostanza che ci deve interrogare come comunità ecclesiale, impegnata in prima linea accanto ai più deboli. Se il pacco, infatti, è finalizzato a sé stesso servirà a riempire la pancia, ma non a riscattare chi oggi non ha possibilità. Sarà quasi odiato e non visto come opportunità temporanea per aiutare la famiglia ad andare oltre.
La canzone continua: «Vedo nero, senza luce, nella testa ho un blackout. Nessuno mi sta accanto, ma ho un fratello che è al mio fianco, affiliato e capobranco. A sta merda devi abituarti. Tu che ne sai!».
Che ne sappiamo se non viviamo quel disagio? Che ne sappiamo se, assolto l’obbligo materiale, continuiamo la nostra bella vita? Che ne sappiamo se non riusciamo a sbloccare l’amore di chi non si sente amato? Don Alberto Ravagnani ricorda di amare «in modo che chi riceve il vostro amore impari ad amare a sua volta. Che vi amiate così intensamente e così ostinatamente da liberare la capacità di amare persino nell’uomo più egoista e più ferito del mondo».
Amore è Carità. Dio è Carità. Dio è Amore. Ricordiamolo ogni qualvolta tendiamo la mano. E, come ha ricordato il nostro vescovo Giuseppe Giudice, facciamo in modo che il nostro aiuto sia integrale e edificante. Non fermiamoci ai pacchi, perché anche la «cultura è carità che aiuta le persone a crescere».