In trent’anni il mondo è cambiato (più volte) ed è cambiato anche il nostro Paese. La normativa per diventare cittadini italiani è invece rimasta ferma al palo ed è una delle più restrittive in Europa, per non parlare del confronto con molti Stati americani, laddove quasi ovunque (dagli Usa al Canada, al Brasile) la cittadinanza è collegata direttamente alla nascita sul territorio dello Stato. Ius soli, come sintetizza efficacemente la formula latina.
In Italia, a meno di non avere almeno un genitore italiano (e si parla allora di ius sanguinis), gli stranieri possono chiedere la cittadinanza per naturalizzazione solo dopo dieci anni di permanenza continuativa e i loro figli devono comunque attendere il compimento della maggiore età e dimostrare di aver vissuto in Italia ininterrottamente dalla nascita.
È una normativa così lontana dalla realtà maturata in questi tre decenni da produrre spesso risultati paradossali.
I casi che emergono dalle cronache riguardano per lo più il mondo dello sport, con giovani campioni nati e cresciuti in Italia impossibilitati a competere con i colori azzurri, ma ancor più straniante è la situazione di coloro (si stimano in circa un milione i ragazzi costretti in una sorta di limbo giuridico) che a scuola e fuori vivono quotidianamente accanto ai loro coetanei italiani, che magari parlano italiano con le colorite cadenze dei nostri territori, ma per la legge sono a tutti gli effetti degli stranieri.
La proposta di legge in discussione alla Camera intende porre rimedio a questa profonda contraddizione collegando l’acquisizione della cittadinanza a un percorso formativo.
Per questo è stato coniato il termine ius scholae.
L’art. 1 del testo all’esame dell’Aula di Montecitorio afferma che acquista la cittadinanza italiana “il minore straniero nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che risieda legalmente in Italia e che, ai sensi della normativa vigente, abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale”.
Il testo precisa che “nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva del corso medesimo”.
Un apposito decreto interministeriale, previa intesa nell’ambito della conferenza Stato-Regioni, fisserà i requisiti essenziali che devono avere i percorsi formativi “ai fini dell’idoneità a costituire titolo per l’acquisto della cittadinanza”.
Sempre l’art. 1 stabilisce che, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, per acquisire la cittadinanza è necessario che “un genitore legalmente residente in Italia” o “chi esercita la responsabilità genitoriale” esprima una “dichiarazione di volontà” all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore. Dopo di che “entro due anni dal raggiungimento della maggiore età l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza”.
Nello stesso termine temporale l’interessato, essendo diventato maggiorenne, può richiedere direttamente la cittadinanza se gli altri titolati non hanno provveduto a farlo precedentemente.
Nei sei mesi precedenti il compimento dei diciotto anni, gli ufficiali dell’anagrafe sono tenuti a informare i residenti stranieri della facoltà e dei requisiti per richiedere la cittadinanza italiana. L’inadempimento di tale obbligo sospende i termini di decadenza per la richiesta.
Stefano De Martis