Apriamo una parentesi in questo periodo di discussioni e attese per il nuovo governo e di conseguenza per la scuola che sarà, data l’inevitabile svolta a Viale Trastevere, che peraltro non necessariamente significherà un cambiamento sostanziale nelle politiche scolastiche (anche se la storia insegna che spesso ogni ministro che arriva vuole lasciare il segno con qualche riforma necessaria o meno che sia).
La parentesi riguarda il fenomeno del bullismo e la sua continuazione “social”. L’amplificazione degli atti di brutalità legata alle possibilità della tecnologia, degli smartphone, di internet.
Di bullismo e cyberbullismo non si parla mai abbastanza. Di solito ci si ricorda del fenomeno quando qualche eclatante fatto di cronaca lo mette sotto i riflettori, ma in realtà esiste una volenza quotidiana, quasi ordinaria, che è fatta di tante piccole e grandi discriminazioni.
Il mondo dei nostri ragazzi – e la scuola è principalmente lo scenario dove passano il maggior tempo di vita – non è idilliaco. Tante volte conosce le dimensioni della violenza e della prevaricazione, della competizione spinta all’eccesso. Del resto non può che essere in qualche modo riflesso di quello che avviene più in generale nella società.
Nei giorni scorsi sono state diverse le segnalazioni di episodi classificati come bullismo, di fatto piccole e grandi violenze, fisiche e non, nelle aule scolastiche o fuori. In Sardegna un ragazzino di 10 anni è stato picchiato dai coetanei nel cortile della scuola e da tempo già aveva detto ai genitori di essere stato preso di mira dal “branco”. E un quattordicenne a Parma è stato preso a botte perché “secchione”, troppo studioso agli occhi di qualche suo compagno.
Gli episodi hanno tutti avuto conseguenze serie, con ferite e ricoveri in ospedale. E relative denunce.
A Roma, in una scuola superiore, una ragazza è stata pestata in classe da un suo compagno, spintonata, gettata a terra, presa a schiaffi. Mentre un altro riprendeva col telefonino un video che, inevitabilmente, ha fatto il giro del web.
Episodi, che fanno cronaca. Ma se si entra con attenzione negli ambienti di vita dei nostri figli, la dimensione della violenza spesso non è estranea e non di rado nemmeno è percepita. Ancora meno si considera come pericoloso e/o prevaricante l’uso improprio dei video, delle chat, di internet. Parole e immagini gettate nel web, capaci di ferire, di umiliare, addirittura – anche questo è cronaca – di spingere ad atti estremi.
Che fare? Non c’è via d’uscita se non quella paziente dell’educazione, della vigilanza degli adulti, del buon esempio.
E delle iniziative mirate, come ad esempio quelle messe in campo già da qualche anno da “generazioni connesse”, progetto europeo gestito dal Ministero dell’Istruzione, che prevede anche la formazione del personale scolastico sui temi legati alla sicurezza in Rete.
L’ultima campagna di sensibilizzazione è appena partita in collaborazione tra Polizia di Stato e Ministero dell’istruzione. Facendo tappa in moltissime città, gli operatori della Polizia Postale e quelli del Ministero dell’Istruzione incontreranno studenti, genitori e insegnanti parlando di sicurezza online e cercando di farsi capire da tutti. Scuotendo sensibilità e – questo l’auspicio – promuovendo consapevolezza e responsabilità sempre più condivise.
Alberto Campoleoni