Don Carlo Velardo: vite che parlano

Don Carlo Velardo, missionario salesiano originario di San Valentino Torio, racconta quasi 50 anni di servizio in Thailandia accanto ai diversamente abili. Ha aiutato i non vedenti ad uscire da miserie ed emarginazione dando loro la «chiave per la libertà». Da 35 anni lavora anche presso la Nunziatura apostolica a Bangkok impegnato a «lanciare nel mondo il seme del Vangelo»

«Di me sarete testimoni (At 1,8) – Vite che parlano» è il tema dell’Ottobre missionario 2022. Mai citazione fu più appropriata per la vita di don Carlo Velardo. Il sacerdote 72enne, originario di San Valentino Torio e tailandese d’adozione, scelse questo versetto degli Atti in occasione della sua ordinazione sacerdotale.

Lo incontro nella sagrestia della parrocchia di San Giacomo Maggiore Apostolo, mancava nella sua città natale da quattro anni. Apre il suo cuore e racconta la sua esperienza di uomo e sacerdote che ha scelto di mettersi sulle orme di san Giovanni Bosco, partendo dall’entroterra campano per raggiungere il Sud-est asiatico. La prima volta che approdò in Thailandia non fu amore a prima vista. Ci rimase due anni. La lingua fu un muro. Ritornò in Italia dove completò gli studi di Teologia. Ordinato sacerdote nel 1977, a gennaio del 1978 volò nuovamente a Bangkok per stabilirsi definitivamente nella comunità salesiana della capitale tailandese. Aveva perfezionato l’inglese, che gli consentì di abbattere i primi muri e imparare la lingua locale.

L’incontro con i non vedenti

Era destinato a svolgere il suo apostolato nel Sud del Paese, in un centro di formazione per catechisti. Il superiore cambiò programma, inviandolo in un centro per disabili: «Fu una tegola sulla testa, non ero preparato a svolgere questo servizio e non avevo esperienza. Il superiore mi disse: “Non preoccuparti, il Signore ti ispirerà”. Devo dire che così è stato. Io non ero preparato, ma Lui lo era». Cominciò questo lavoro con un confratello belga: «Ci siamo detti: “Di disabilità non ne sappiamo niente, ma di giovani sì. Questi sono giovani, cominciamo da qui”». 

Si avvia un’esperienza lunga quattro decenni al Centro di sviluppo delle competenze per non vedenti di Pakkred, nordest di Bangkok, con oltre 700 ragazzi salvati dall’emarginazione e dalla povertà. Un centro aperto da 17 anni, che non portava frutto.

Passano due anni e don Carlo arriva alla direzione della struttura: «Incontro un singaporiano esperto della materia che mi presenta alcune persone, creiamo una simbiosi di conoscenze. Nei primi anni sono stato aiutato da una realtà luterana. Un ecumenismo di vita perché l’unico obiettivo era poter sollevare le sorti dei non vedenti».

L’ingresso del centro

Don Carlo si concentra sulla conoscenza dei luoghi dove opera e sul coinvolgimento dei ragazzi. Ai giovani, che ha strappato ad un futuro di miseria ed emarginazione, parla a cuore aperto: «Dico loro: “Avete il problema della vista, ma tutto il resto va bene. Cerchiamo di valorizzare questo”. Così portiamo avanti un processo di liberazione».

Nel 1978 i non vedenti «erano all’ultimo gradino della scala sociale», ora sono stati capaci di risalirla. Un lavoro non in solitaria: «Ho cominciato a tirare dentro persone capaci e soprattutto disponibili a mettersi accanto ai non vedenti».

La formazione è divenuta inclusione: «La “chiave della libertà” perché hanno imparato ad usare il bastone per andare in giro da soli, hanno studiato per un diploma, alcuni hanno conseguito la laurea. Si sono resi indipendenti con un lavoro. Nelle loro famiglie erano considerati poco meno di cagnolini, dopo tempo erano ritenuti delle colonne».

Ragazzi durante i corsi di massaggio

Sport e disabilità

Dopo qualche anno è arrivato anche lo sport: «Richiede disciplina e questo aiuta tanto nella vita. Poi se riesci a fare il salto di qualità nelle competizioni si ha la visibilità, che è di ispirazione per altri che esitano ad uscire dalla tana». 

Lo sport è stato conseguenza del lavoro che non garantiva sicurezza. I non vedenti racimolavano qualche soldo vendendo i biglietti della lotteria, ma spesso venivano derubati. «Erano pronti a protestare, anche contro le forze dell’ordine che ritenevano non li tutelassero. Quando ne venni a conoscenza, chiesi loro di portare un po’ di pazienza. Mi presentai all’accademia di polizia e chiesi al comandante di parlare con gli istruttori di judo affinché potessero insegnare questo sport ai non vedenti». Don Carlo aveva un duplice obiettivo: «Rafforzare il rapporto tra i miei ragazzi e la polizia e far sì che le tecniche di autodifesa diventassero un deterrente per i malintenzionati». 

La premiazione di una gara di judo

Dopo le prime perplessità, la sfida fu accettata da entrambe le parti. All’inizio non fu facile, ma i risultati non tardarono ad arrivare: «Finirono le ruberie e si consolidò il rapporto con le forze dell’ordine».

Una scelta antesignana, perché non esisteva il judo per i non vedenti. Successivamente è arrivato il goalball, che serviva ad affinare l’udito, raggiungendo finanche le Paralimpiadi. L’ultimo step è stato il ciclismo con l’uso del tandem: «Almeno una volta all’anno facciamo una biciclettata di un centinaio di chilometri. Prima della pandemia, per gli 80 anni della fondazione, abbiamo fatto una iniziativa nazionale organizzando attività in cinque zone della Thailandia e aggregando migliaia di ciclisti».

Per il missionario salesiano «non lo sport non è fine a sé stesso, ma è educativo ed ha ricadute sulla società».

I riconoscimenti

Ai ragazzi che ce l’hanno fatta ricorda «l’importanza della cooperazione perché una volta arrivati ad un livello di indipendenza non si dimentichino di coloro che sono ancora in difficoltà». Un lavoro benemerito che gli ha fatto conquistare l’importante riconoscimento di “Outstanding Person in the Field of Disability” (Persona straordinaria nell’ambito della disabilità), assegnato dall’Assemblea legislativa dello Stato. E la partecipazione ad associazioni e fondazioni che si occupano di non vedenti e disabilità: «Non sono soltanto uno straniero, ma anche un prete. Quando ti chiedono un’opinione e noti che l’ascoltano è molto importante. Ritengo percepiscano che c’è il seme del Vangelo. Questo cambia tutto».

Esperienza di dialogo e sinodalità

Una vita ricca, ma che continua ad offrire spunti, anche in contesti difficili. Una testimonianza preziosa ed evangelizzatrice: «In Thailandia la religione predominante è il buddismo. Il cattolicesimo è una minoranza. Non ti puoi mettere in piazza a predicare. La cosa che puoi fare è mostrare attraverso la tua vita ciò che credi. Sarà poi questo che porterà le persone a chiedersi perché lo fai». Lo ha sperimentato anche nei rapporti con i monaci buddisti che andavano al centro per non vedenti, dove c’era una scuola di massaggi: «Ogni volta c’era l’occasione per chiacchierare e confrontarci. Spesso incoraggiavano i loro fedeli ad aiutare come volontari». 

Una missione che è esperienza di sinodalità: «Sinodale significa avere un cuor solo. Lo scopo della sinodalità è mostrare una Chiesa viva, attiva, cooperante, aperta a tutti gli orizzonti».

Uno sguardo dal mondo

Trentacinque anni fa arriva anche la chiamata a servire la Santa Sede presso la Nunziatura apostolica in Thailandia, dove è impegnato a «lanciare nel mondo il seme del Vangelo».

Al termine della chiacchierata gli chiedo come vede l’Italia e la Thailandia: «Amo l’Italia che mi ha dato tutto, ma allo stesso tempo amo la Thailandia che mi ha dato tanto, soprattutto in apertura mentale. In Italia si dà peso a tante minuzie perdendo di vista le cose importanti. Un punto negativo è la mentalità del villaggio, che in alcuni casi l’attanaglia. Basterebbe aprire la porta per vedere che le cose stanno diversamente».

Un suggerimento per essere missionari nelle proprie terre? «In Italia c’è la questione dei migranti. Se noi li isoliamo, ci isoliamo allo stesso modo e non supereremo mai i problemi. Dobbiamo lavorare creando momenti di amicizia. La Chiesa aiuta materialmente, ma basta quello? Andare oltre potrebbe essere un modo per essere missionari nelle nostre città. C’è tanto bisogno di dialogo e simbiosi. Agiamo su quel che si può fare, anziché alimentare l’indifferenza».

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