È difficile affrontare una vita immaginando che la propria condizione sociale ed economica non cambierà, che i propri figli non avranno una prospettiva diversa dalla propria.
Si percepisce una sensazione di impotenza, ci si sente imprigionati, senza possibilità di fuga. Infondo è un po’ questa la prospettiva che offre una società statica, con l’ascensore di mobilità sociale bloccato verso l’alto. Molto probabilmente è questa la prospettiva in cui si trovano i 5 milioni e 600 mila poveri residenti in Italia.
Questo è il numero complessivo secondo il XXI Rapporto Caritas su povertà ed esclusione sociale, intitolato “L’anello debole”, che evidenzia una crescita delle persone in povertà assoluta, tra le quali si contano oltre 1 milione e 400 mila minori. Inoltre la Caritas nell’indagine denuncia un aumento del 7,7% di persone che si sono affacciati ai diversi servizi per chiedere aiuto.
Certo, i dati non sono buoni, ma in un biennio complicato tra Covid e guerra in Ucraina si potrebbero giustificare come gravi, però provvisori, perché descrittivi di un periodo di crisi congiunturale. Invece la situazione è assai più preoccupante.
Tra i poveri, 6 su 10 sperimentano una condizione di vita peggiore rispetto a quella dei loro genitori.
Inoltre l’indagine della Caritas per la prima volta evidenzia l’ereditarietà della povertà. Non solo è difficile che un indigente possa riuscire a risollevare la sua condizione sociale. Secondo la ricerca dovranno trascorrere cinque generazioni perché un suo discendente possa raggiungere un livello di reddito medio.
Il nostro sistema sociale non promuove gli ultimi. Tra loro anche quelli con un’occupazione non riescono a ottenere un lavoro dignitoso in grado di garantire una vita buona. Nemmeno la scuola è un motore di riscatto sociale. Tra i dati si legge che solo l’8% dei figli con genitori senza diploma di scuola superiore (la maggioranza in questa fascia di popolazione) riescono a ottenere un titolo di studio di livello universitario.
Un simile contesto richiede un nuovo modo di vedere. Non sono sufficienti semplici aiuti economici o percorsi di orientamento al lavoro se c’è un sistema che crea lavoratori poveri.
È necessario cambiare mentalità per andare verso un’economia della cura come la chiama Papa Francesco: “La cura va oltre, deve essere una dimensione di ogni lavoro. Un lavoro che non si prende cura, che distrugge la creazione, che mette in pericolo la sopravvivenza delle generazioni future, non è rispettoso della dignità dei lavoratori e non si può considerare dignitoso. Al contrario, un lavoro che si prende cura contribuisce al ripristino della piena dignità umana, contribuirà ad assicurare un futuro sostenibile alle generazioni future. E in questa dimensione della cura rientrano, in primo luogo, i lavoratori” (Messaggio ai partecipanti della 109a sessione dell’International Labour Conference, 2021).
Andrea Casavecchia