Il Natale, l’anno che verrà, la delicata situazione sociale, il Cammino sinodale e la pietà popolare. Affrontiamo con il Vescovo una serie di temi che hanno caratterizzato il 2022 e che continueranno a scandire, per certi versi, le settimane e i mesi che verranno.
Monsignor Giuseppe Giudice indica nella speranza la virtù da avere come riferimento e guida. E, come stile, la pazienza. «Siamo abituati ad una cultura del tutto e subito, dopo due minuti dalla semina vorremmo la spiga pronta e il panino croccante. Non sappiamo più attendere».
Una fretta non fruttuosa?
C’è una impazienza che qualche volta diventa motivo per rovinare i rapporti. Il cardinale Colombo scriveva: “Se Dio non fosse stato paziente con me, chissà dove sarei”. Questa pazienza che Dio ha con noi, non sempre noi ce l’abbiamo con gli altri. Dovremmo riscoprire una spiritualità della pazienza, che non è capacità di perdere tempo, ma di gestire bene il tempo.
Spirano venti di guerra. Lei ha spesso detto che la guerra nasce dentro di noi.
Guerra è una parola difficile, che utilizziamo spesso. Non solo. Noi siamo bravi a fare la guerra. Le grandi guerre non mi meravigliano perché noi siamo capaci di piccole guerra in mezzo a noi. Dobbiamo recuperare una grande pace dentro di noi e i bambini ci possono aiutare. Gesù ci dice di diventare come i bambini perché loro si affidano e si pongono con stupore dinanzi alla vita, loro non calcolano di fare il male. Gli adulti, invece, si siedono per fare la guerra. Il Natale può dare un grande messaggio di pace, ma la pace non ci sarà mai se non ci saranno uomini e donne di pace.
Come?
La pace chiede di ricominciare, non è data una volta per sempre. Essere operatori di pace significa porre in atto quei gesti, quelle azioni che possono educare al dialogo. La prima pace è un cuore pacificato, contento. Ci sono troppe guerre, troppi campi di battaglia nel cuore dell’uomo che poi esplodono nelle piccole, grandi guerre che conosciamo.
La guerra è entrata anche nella sua Lettera di Natale. Ad aiutare i grandi ci pensano due bambini. Come essere più pronti ad accoglierli e ascoltarli?
Nella nostra logica pensiamo: un bambino mi può guidare? Sì! Mi colpiscono sempre i bambini quando giocano: sono così presi, più di noi quando lavoriamo. Comprendere questa caratteristica è importante.
L’infanzia spirituale ci fa ricordare che siamo nelle mani del Signore. Da loro potremmo imparare a non banalizzare il Vangelo. Noi pensiamo di essere i potenti, i grandi, da loro vogliamo una poesia. Ma loro sono la poesia! Tornare ad una infanzia spirituale ci insegnerebbe molte cose.
Genitori divisi, guerre familiari, bambini trattati come pacchi di qua e di là, come oggetti di ricatto: attenzione a che tutte queste ferite non esplodano in guerre!
Una “guerra” la viviamo anche nelle nostre comunità. Mi riferisco alle tensioni sulle processioni. Qual è il suo stato d’animo?
Più che parlare di guerra, parlerei di un disagio che è venuto fuori da una scelta fatta come Vescovo insieme al presbiterio. Sono molto sereno perché per me, e anche per la nostra Chiesa, la pietà popolare è una grande ricchezza. Questa sosta che abbiamo voluto fare, a partire dalla pandemia e dalla guerra, è stata l’occasione per fermarci un attimo e ridare alle nostre feste uno sguardo e un’immagine più umana e cristiana.
Penso che la serenità sia data dal fatto che è stata una scelta fatta da tutto il presbiterio, anche se so benissimo che tanti avrebbero fatto diversamente o non avrebbero scelto. Aiutati dal Cammino sinodale abbiamo fatto una scelta insieme per dare un senso nuovo alle nostre feste: non per annullarle, mortificarle, escluderle dai nostri orizzonti, ma per ridare un po’ di ossigeno cristiano. Non mi illudo che cambiamo il mondo, ma un modo di fare potrebbe anche cambiare.
I manifesti funebri, le offese che le vengono rivolte sui social cosa le fanno pensare?
Non me la sono presa per la mia persona, ma per il senso di poca attenzione alla Chiesa. Ho colto queste manifestazioni quasi come un degrado dato da una cultura che oggi è contro tutto e tutti, utilizzando anche in modo sbagliato le nostre feste. Se andiamo ad analizzare i social, molti di quelli che inveiscono sono anche molto lontani dalle nostre comunità.
Purtroppo ho notato un’assenza di tante nostre realtà, come se fossero al di fuori di questo dibattito. Questo è tra gli aspetti che più mi ha lasciato perplesso e fatto pensare. È come se nelle nostre comunità avessimo diversi piani: alcuni che vorrebbero solo queste manifestazioni, altri che fanno un percorso più spirituale. Questo preoccupa perché gli uni sono, forse, digiuni dalla formazione, gli altri fin troppo accademici. Avrei atteso da un mondo di fedeli laici, associazioni e gruppi, una parola più chiara su questo tema.
Cosa ci si aspetta dal cantiere diocesano “Dalla festa alle feste”?
Abbiamo camminato, ma qualche volta non abbiamo camminato insieme. Su questo tema specifico, soprattutto nel Sud, vorrebbe dire essere fuori dalla storia.
Temo che la scheda preparata non sia passata nelle parrocchie, nei consigli pastorali, nelle commissioni festeggiamenti, nelle aggregazioni. Ho l’impressione che qualcuno neanche sappia di questo Cammino. Insisterò.
Come comunità, congreghe, associazioni, religiosi: bisogna fermarsi a dire una parola, discutere, riflettere. Non mi illudo di nulla, ma sarebbe una bella occasione, insieme, fare chiarezza, nel rispetto delle diverse identità. Dobbiamo far rientrare la pietà popolare in un cammino pastorale. Non si deleghi solo ad alcuni, che vogliono gestire queste feste quasi al di fuori di una dimensione comunitaria. È questo che poi crea difficoltà ai parroci, agli altri operatori pastorali, alla diocesi ed è l’alibi per qualcuno affinché non affronti il tema. La festa del patrono è un momento di compimento di un cammino comunitario, altrimenti viene estrapolato dal contesto e diventa quasi come una metastasi al di fuori dal corpo. Il problema è ecclesiologico. Se poi vogliamo rifugiarci sotto il “si è fatto sempre così” restiamo poco incisivi.
Delle derive ci sono, inutile negarlo. Ma se al termine del discernimento non si arrivasse ad una soluzione condivisa?
Innanzitutto non stiamo a vedere chi vince o perde. Dobbiamo avere la saggezza e la pazienza della Chiesa: non ci si ferma sull’out out, ma si lavora sull’et et. Dobbiamo saper mettere insieme diversi aspetti, perché una cosa è l’unità, un’altra è l’uniformità. Vorrei usare l’immagine del mosaico: diversi aspetti, se guardati nella carità, possono camminare insieme. Sarebbe un errore dire: “Tutti devono fare così”. Sarebbe mortificare alcune tradizioni e peculiarità, facendo entrare tutto in un format.
Eccellenza, cosa augura alla Diocesi per questo Natale e per il 2023?
Utilizzerei una parola semplice, che è una virtù: speranza. Usciamo da un tempo che è difficile, e lo è ancora. La preoccupazione come pastore è che venga meno il senso della fiducia e della speranza. La speranza non è una illusione. Vorrei che ognuno possa cogliere la speranza di Maria e Giuseppe che, seppur in una condizione difficilissima, accolgono il Figlio di Dio.
Abbiamo reso il Natale troppo romantico, dimenticando il mistero dell’incarnazione. La speranza mi fa guardare oltre, a porre lo sguardo oltre le cose di oggi. Un Bambino ci guiderà significa che, se vogliamo diventare più grandi, dobbiamo affidarci anche alla loro piccolezza. Auguri.
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