La promessa fatta ad una amica, l’educazione ricevuta in famiglia, il percorso professionale e formativo. Coniuga questi tre aspetti l’esperienza di Tiziana Genovese, un passato da cestista in serie A, oggi al servizio dello sport paralimpico.
È tra le anime del progetto “Si può dare di più” messo in piedi dalla Caritas diocesana in partenariato con il Comune di Nocera Inferiore e l’Asl Salerno. L’obiettivo è coinvolgere in attività sportive 50 ragazzi diversamente abili grazie al coinvolgimento di alcune associazioni sportive locali.
«La civiltà di una città si misura su queste iniziative», così ha sottolineato don Vincenzo Di Nardi, direttore della Caritas diocesana. «Il mondo della disabilità – ha aggiunto – si caratterizza anche per la solitudine, con lo sport proviamo ad accorciare queste distanze e a ridurre il rischio emarginazione».
Quando nel 1986 Genovese – giocava come ala nella squadra Latte Berna Gragnano – mise piede in campo non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi a guidare una squadra di basket inclusivo. A spingerla su questa strada la laurea in Sociologia e la certificazione di tecnico del comportamento ABA per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico.
Alla base di tutto c’è però un patto: «L’impegno per gli sport inclusivi – ha raccontato – nasce dalla promessa ad una amica giocatrice che ha scoperto di essere affetta da sclerosi multipla progressiva. Le dissi che avrei fatto qualcosa per i diversamente abili. Per anni non ne ho avuto l’occasione, ora finalmente posso onorare quel giuramento». Ha influito anche l’educazione familiare: «Mia madre mi ha trasmesso una grande attenzione e sensibilità verso l’accoglienza e la disabilità, mi ha insegnato ad accogliere e aiutare tutti».
Coach Tiziana lo fa in maniera integrale poiché, oltre alle attività svolte per conto della Caritas, da questa stagione allena in seconda i Crazy Ghosts Pontecagnano, squadra di basket in carrozzina che milita in serie B. «Squadre del genere sono rarità non per le strutture, che non mancano, ma a volte per una questione di mentalità e di costi», ha spiegato. Infatti, gli atleti provengono da diverse zone geografiche, quindi, ci sono i costi logistici. Ma poi servono le attrezzature: una sedia per gare agonistiche può costare anche oltre i 2.500 euro.
Non è facile portare avanti questi obiettivi. Costano tempo e fatica, che per Genovese sono un motivo di rinascita. Infatti, delle questioni familiari hanno fortemente segnato la sua vita come persona e come sportiva: «Ci vuole coraggio a cominciare da zero dopo tanti problemi: i no sportivi e la perdita di persone care. Ma vedo questo momento come un’occasione di rinascita». Lo sport, dunque, come catarsi personale e collettiva: lo ha sperimentato sulla propria pelle e nella vita degli altri. «Lo sport ha salvato moltissime persone, credo sia una forma riabilitativa ludica-sociale», ha affermato.
Ha raccontato di una esperienza fatta accanto ad un ragazzo affetto da disturbi dello spettro autistico e a basso funzionamento, una forma gravissima: «Quando ne ho avuto l’occasione, ho provato a farlo tirare a canestro. All’inizio è stato difficile, poi ha cominciato a passare il pallone, a tirare, a palleggiare. Azioni che possono apparire semplici, ma che in realtà richiedono un grande sforzo. Con questo ragazzo ho visto un grande miglioramento».
Ma a chi sono rivolti gli sport inclusivi? A tutti, dagli 8 anni di età. Il capitano della squadra di Pontecagnano, per esempio, ha 61 anni. Gli sport da praticare sono molteplici: il tiro con l’arco, come fece per la prima volta Ludwig Guttmann, o il tennis tavolo. «Non c’è nulla che vieta ad una persona di 60 anni di intraprendere uno sport», ha detto. Il progetto “Si può dare di più” mette a disposizione tre discipline per i disabili con problemi intellettivo-relazionali: bask-in, atletica, rugby.
«Coloro che hanno una disabilità più conclamata avranno sicuramente meno difficoltà ad approcciarsi con l’atletica e il rugby. Il basket richiede già una strutturazione diversa per le regole, ma anche per la disposizione della squadra», ha detto Genovese.
Il benessere sprigionato da queste occasioni va oltre quello fisico: «Lo sport aiuta anche dal punto di vista dell’umore, i disabili soffrono nel fisico, ma anche nei rapporti sociali». Non è secondario, infine, l’aspetto disciplinare. L’atleta lo mette in pratica anche nella scuola di mini basket che ha aperto qualche anno fa a Nocera Inferiore: «Le mamme mi ringraziano perché i figli si staccano dai social. Inoltre, togliamo i ragazzi dalla strada». Una carriera, quella di Genovese, che dal professionismo ha lasciato il passo all’inclusione. Due vite sportive, insomma. Entrambe emozionanti, anche se con sfumature diverse. Della prima salva la «professionalità, la tecnica», della seconda salva «il cuore».
Una lettura emozionale che ha fatto anche Amalia De Martino, vice presidente della Fidal Campania, durante la conferenza stampa di presentazione del progetto: «State mettendo in risalto il valore supremo dello sport. Voi darete tanto, ma questi ragazzi speciali vi daranno molto di più». Già si intravedono i primi frutti.
I personaggi
Ludwig Guttmann è stato un celebre neurologo e dirigente sportivo anglo-tedesco di origine ebraica, a cui si deve la paternità della spor terapia e della nascita degli sport per le persone disabili, nonché della primordiale edizione di quelli che poi diventeranno i Giochi paralimpici.
Antonio Maglio può essere considerato come il padre del movimento paralimpico in Italia. Segue le orme di Guttmann. Maglio trasferì i suoi insegnamenti nel Centro Paraplegici di Ostia “Villa Marina”. Nel 1960, in concomitanza con le Olimpiadi, riesce a portare i Giochi di Stoke Mandeville a Roma, dando luogo alla prima Paralimpiade della storia.
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