Oltre a rilevanti problemi di ordine giuridico-costituzionale, il progetto dell’autonomia differenziata delle Regioni pone consistenti questioni di tipo economico-finanziario a cui finora i sostenitori dell’iniziativa non hanno saputo dare risposte convincenti.
Il rischio paventato da molti è che l’esito di questo percorso sia un aumento delle forti disuguaglianze già esistenti tra i territori.
“Le Regioni più povere ovvero quelle con bassi livelli di tributi erariali maturati nel territorio regionale potrebbero avere maggiori difficoltà ad acquisire le funzioni aggiuntive”: lo ha scritto di recente in una “nota di lettura” il Servizio del bilancio del Senato, l’ufficio di Palazzo Madama che ha il compito di offrire ai parlamentari una valutazione degli effetti di finanza pubblica dei provvedimenti in discussione.
La “nota” è stata al centro di polemiche piuttosto aspre perché nella maggioranza c’è chi vi ha letto una manovra contro l’esecutivo, ma se in ambito parlamentare si mettono in evidenza le potenziali criticità di un provvedimento di iniziativa governativa non c’è proprio nulla di scandaloso, anzi.
Al di là delle polemiche, dalla “nota” emerge ancora una volta che lo snodo cruciale è quello della determinazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, da assicurare su tutto il territorio nazionale. Il documento, tra l’altro, sottolinea la necessità di uno “specifico chiarimento” su “come si riuscirà a garantire la compatibilità di un eventuale aumento di gettito fiscale delle Regioni differenziate rispetto alla legislazione vigente, per effetto del trasferimento delle funzioni, con la necessità di conservare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali presso le altre Regioni”.
In soldoni (l’espressione è quanto mai pertinente) è illusorio pensare che l’operazione autonomia differenziata si possa fare a costo zero per l’intera comunità nazionale, come sostanzialmente si afferma nel ddl Calderoli. A meno di non accettare il fatto che chi è indietro resti ancora più indietro.
Problemi di coperture finanziarie e di tenuta dello stato sociale, per molti aspetti analoghi, sono stati sollevati anche in relazione a un altro provvedimento di bandiera, la flat tax.
Il capo del servizio assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia, Giacomo Ricotti, ascoltato in commissione alla Camera dove di discute la legge delega sul fisco, ha avvertito che “il modello prefigurato come punto di arrivo – un sistema ad aliquota unica insieme a una riduzione del carico fiscale – potrebbe risultare poco realistico per un Paese con un ampio sistema di welfare, soprattutto alla luce dei vincoli di finanza pubblica”.
L’obiettivo principale, piuttosto, “dovrebbe essere quello di pervenire a una diversa ripartizione del prelievo complessivo”, riducendo “il prelievo sui contribuenti in regola” e “recuperando risorse con il contrasto all’evasione”. A fare le leggi è il Parlamento e non i tecnici, ma prendere sul serio queste riflessioni non sarebbe un male nell’interesse dei cittadini.
Stefano De Martis
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