«Ecco, ogni giorno egli si umilia, come quando dalle sedi regali scese nel grembo della Vergine; ogni giorno viene a noi in umili apparenze; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E, come ai santi apostoli apparve in vera carne, così ora a noi si mostra nel pane sacro».
È stato questo uno dei passi dell’Ammonizione prima di san Francesco d’Assisi citati da mons. Vittorio Francesco Viola, segretario del dicastero per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti. «Il Dicastero – ha spiegato il presule – si occupa di portare avanti la riforma liturgica voluta dal Concilio, sempre a partire dalla riscoperta del senso teologico della liturgia».
Eccellenza, all’ultimo Congresso Eucaristico Nazionale papa Francesco ha invitato a sognare una Chiesa Eucaristica. Come è possibile?
La Chiesa nasce dall’Eucaristia. L’assioma “l’Eucaristia fa la Chiesa, la Chiesa fa l’Eucaristia” dice l’unità profonda che c’è tra l’Eucaristia celebrata e la vita della Chiesa. La Chiesa vive dell’Eucaristia e questo la rende partecipe di quella dimensione fondamentale che è l’amore che si dona. Facendo comunione al corpo offerto di Cristo non possiamo non vivere la stessa dimensione di offerta. Si diventa Chiesa Eucaristica imparando ad essere docili all’azione dello Spirito, che, come trasforma il pane e il vino in offerta, vuole trasformare in offerta anche la nostra vita.
Che ruolo gioca la liturgia nell’avvicinare l’uomo a Dio?
Fondamentale purché sia rettamente compresa. Purtroppo c’è ancora una visione riduttiva di ciò che è la celebrazione liturgica, quasi che sia solo la dimensione esteriore del culto. Per noi il luogo dell’incontro con Cristo è nell’azione celebrativa. Occorre continuamente riscoprire questa dimensione del celebrare cristiano: nei riti, nella parole, nei gesti, nei segni sensibili ci viene data la possibilità di attingere alla potenza della Pasqua. Questo per noi è essenziale. Purtroppo l’uomo moderno ha perso la capacità di comprendere i simboli e questo può farci cadere in una di quelle visioni riduttive della celebrazione. Tornare ad essere capaci di simboli è una questione decisiva.
Sono ancora molti quelli che si avvicinano alla Chiesa soltanto per la celebrazione dei sacramenti. Come recuperarli alla vita comunitaria?
La Chiesa è una comunità accogliente. Ci si può accostare ad essa anche con una motivazione non ineccepibile. Ma il fatto che ci sia una richiesta, anche con motivazioni inadeguate, è comunque un’occasione per incontrare delle persone, per aprire un dialogo, per costruire qualcosa. La richiesta dei sacramenti è pur sempre un’occasione per poter portare un annuncio, per poter accogliere, fidandoci anche della grazia che i sacramenti hanno. La stessa preparazione ai sacramenti deve essere seria, ma allo stesso tempo deve partire da un incontro con delle persone che hanno un proprio percorso, cercando di aiutarle a crescere in questo.
Come recuperare oggi la centralità del Dies Domini?
Ci siamo fatti derubare della domenica quasi senza accorgercene. Abbiamo perso una realtà che è essenziale per la vita cristiana e della comunità. Quando diciamo domenica non diciamo solo la Messa domenicale, anche se la celebrazione eucaristica è fondamentale. Occorre ripartire dalle comunità che si radunano per celebrare l’Eucaristia e così riuscire a dare al giorno del Signore una dimensione che non sia semplicemente quella del riposo ma anche quella della festa. Sostituire la domenica con un giorno di riposo è perdere la dimensione della festa. Questo è distruttivo per la vita dell’uomo. C’è, infatti, anche un discorso antropologico: la mancanza di un giorno di festa è una perdita per tutti, anche per chi non crede.
Nonostante un generale arretramento della fede e della pratica cristiana in Italia e in Europa, san Francesco ed Assisi continuano ad attirare milioni di pellegrini. Forse c’è un desiderio di radicalità e in Francesco si trova il modello più valido?
Prima di radicalità direi di vicinanza, di contemporaneità. Della figura di Francesco sorprendono la sua attualità in ogni epoca e il fatto che egli parli a tutti: ai giovani, all’uomo che soffre nel momento della prova e della malattia, all’uomo di fronte alla morte. A volte noi rischiamo di sminuire la figura di Francesco con qualche tratto poetico, nemmeno poi così fondato sulla sua figura reale, storica, ma ciò che sorprende di lui è che ha vissuto in profondità la fede cristiana. L’incontro con Cristo gli ha cambiato la vita e gli ha rivelato che la vita cristiana altro non è che vivere Gesù Cristo, è un percorso di conformazione, che per lui è stato portato fino alla vetta con il segno delle stimmate. Credo sia questo ad attirare ancora molti a Francesco.
Quanto è attuale oggi quel primo presepe realizzato da san Francesco a Greccio nel 1223?
È attuale l’intuizione di Francesco. Il presepe che Francesco ha pensato e attuato è diverso da come noi normalmente lo intendiamo. Il presepe di Francesco è come un’ambientazione della celebrazione dell’Eucaristia, che è il modo con cui Dio oggi si rende presente. Ciò che ci insegna Francesco con quello che noi chiamiamo il primo presepe, anche se non è esatta come qualifica, è il modo con cui egli ha voluto, nel giorno del Natale, aprirsi al mistero della presenza del Signore in mezzo a noi, che continua appunto nella Parola e nei sacramenti, in particolare nell’Eucaristia.
E pensare che oggi c’è chi ha tolto o vorrebbe togliere il presepe dalle scuole per conservare la laicità dell’istituzione scolastica…
La questione fondamentale è testimoniare la nostra fede. Il presepe è un segno che dice quello che siamo, quello in cui crediamo e la radice cristiana della nostra società, che sicuramente in questi tempi è messa in crisi. Riconoscere ciò che ha segnato una cultura è importante. Prima ancora che un fatto di fede, penso sia un fatto culturale, in una realtà che sta diventando sempre più multiculturale, ma che deve riconoscere e valorizzare le sue radici.
Ma il presepe è anche la rappresentazione del dramma di una famiglia rifiutata e scartata. Un tema molto attuale.
Uno dei tratti che san Francesco sottolinea del mistero dell’incarnazione è l’umiltà che il Verbo di Dio ha usato per raggiungerci. In fondo, la testimonianza della carità è l’unico comandamento che il Signore ci ha lasciato e si manifesta anche in atteggiamenti concreti di accoglienza. Accogliere i poveri non è semplicemente un’attenzione ad un bisogno sociale, ad una necessità, ma, per chi crede, è accogliere Cristo.
Il suo episcopato è indissolubilmente legato a papa Francesco. I poveri sono la cifra di questo pontificato?
È stato detto che c’è un’enciclica non scritta che è data dai gesti che il Santo Padre ha compiuto. Quando venne ad Assisi nel 2013 e chiese di mangiare con i poveri disse espressamente che non voleva una rappresentanza dei poveri alla mensa, ma voleva mangiare con loro là dove abitualmente mangiavano. Avevamo un centro d’accoglienza vicino alla stazione di Assisi e volle stare lì con loro. Questo gesto dice lo stesso movimento dell’incarnazione: lo stare accanto all’uomo, in particolare all’uomo che si trova in situazioni di difficoltà. Penso che tutti i suoi insegnamenti e i suoi gesti ci portino a riscoprire questa dimensione essenziale per la vita della Chiesa. Forse dovremmo accogliere con più attenzione le parole del Papa, comprenderne il senso più profondo, non limitarci a delle sintesi giornalistiche che rischiano di non farci capire la profondità del suo magistero e dei suoi gesti.
Un profondo legame unisce il presepe di Greccio, l’Eucaristia, i sacramenti, la liturgia, l’accoglienza degli ultimi. Questo legame è l’incarnazione. Ha detto mons. Viola nel corso dell’incontro in Collegiata: «La nostra fede si fonda su verità enormi, che spesso l’abitudine può far sembrare scontate. Ma l’incarnazione, il Verbo di Dio che si fa carne, non può essere un fatto scontato».
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