Essere o fare notizia?
Essere o fare notizia? La domanda ritorna mentre continua a svolgersi sui media una narrazione del male che coinvolge, colpisce e ferisce le nuove generazioni.
Per i ripetuti atti di violenza, commessi anche da minorenni, c’è indubbiamente una motivazione comprensibile della scelta di evidenziarli ma nello stesso tempo traspare un’assenza o un calo di responsabilità dei media che, illudendosi di non averne alcuna, la scaricano su famiglia e scuola.
Succede che il male venga descritto come l’unica presenza degna di racconto mentre il bene viene silenziato come se non esistesse o fosse del tutto insignificante e incapace di incidere nella realtà.
È accaduto ad esempio con la Giornata mondiale della Gioventù a Lisbona quando un milione e mezzo di giovani si sono ritrovati per cercare e per dare un senso alla vita, al pensiero, all’impegno, alla speranza, alla fede.
Quanti e quali media hanno scritto e parlato di quell’incontro andando oltre qualche rapida immagine con frettolosa didascalia?
Centinaia di migliaia di ragazzi, ragazze e giovani durante l’estate hanno vissuto nel nostro Paese esperienze di fraternità e accoglienza: l’attenzione dei media c’è stata sostanzialmente solo quando si sono verificate disgrazie.
Con queste scelte che si fondano più sul fare notizia che sull’essere notizia non si aiutano il lettore e l’ascoltatore di fronte alla realtà nella sua completezza per consentirgli di capire e valutare.
Come i media contribuiscono a far sì che l’opinione pubblica non si riduca a esprimere giudizi sommari e sentenze definitive perché non vengono offerti altri riferimenti che quelli della violenza, dei soprusi, delle offese?
Il compito propriamente educativo non compete ai media ed è vero ma è altrettanto vero che i media, antichi e nuovi, hanno un’etica professionale che esige la completezza e respinge una frammentazione dalla quale cogliere frammenti buoni per vendere più copie o ad aumentare l’audience. Con l’avvallo di editori compiacenti.
A fronte di tutto ciò non serve il lamento, esercizio tanto diffuso quanto sterile, serve un supplemento di coscienza critica, serve la capacità del singolo e dell’opinione pubblica di ribellarsi a un conformismo mediatico scegliendo altri giornali, canali radiotelevisivi, piattaforme social.
Questi esistono sia a livello nazionale che sul territorio e sono prevalentemente media d’ispirazione cristiana che traducono il motto di don Lorenzo Milani “I care” in un percorso dove l’etica professionale non chiede di nascondere il male ma neppure di ignorare il bene.
È un percorso difficile ma possibile e quindi doveroso per risvegliare la coscienza, per non lasciare senza bussola la pubblica opinione, per distinguere l’essere dal fare notizia. Per accompagnare i giovani e farsi accompagnare dai giovani nella fatica e nella bellezza di crescere.
Paolo Bustaffa
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