Sarà forse un modo per distogliere lo sguardo dai limiti che la situazione economico-finanziaria impone alle acrobazie della politica, tanto più che si prospettano all’orizzonte appuntamenti elettorali d’importanza decisiva, ma il dibattito sull’immigrazione ha riconquistato una centralità che non aveva più avuto dopo la stagione spartiacque della pandemia.
E non si tirino in ballo i numeri, che pure sono di estrema rilevanza: essi segnalano certamente una fase acuta del problema, ma in passato si sono toccati livelli almeno pari se non più elevati.
Non è in atto alcuna invasione, a dispetto di quanto spesso si voglia far credere, e in questi anni ci sono Paesi europei che hanno accolto e integrato molti più migranti di noi.
Con queste parole – sia detto a scanso di equivoci – non si vuole in alcun modo ridimensionare la portata della questione migratoria, che ha dimensioni planetarie e implicazioni che investono gli stessi equilibri della comunità internazionale. Si intende piuttosto contestare la narrazione allarmistica ed emergenziale che continua a impedire un approccio realistico, razionale e umanamente efficace a un problema che non si risolve cercando di svuotare il mare con un cucchiaio (vedi il totale fallimento della strategia dei rimpatri che tuttavia si continua a perseguire e rilanciare). Questa narrazione presenta, tra gli altri, due vizi logici di fondo.
Descrivere il fenomeno migratorio nei termini di un’invasione finisce per cancellare dall’agenda delle priorità i temi dell’accoglienza e dell’integrazione.
Un’omissione così macroscopica da legittimare il dubbio che questo atteggiamento possa essere funzionale a determinare e a perpetuare una situazione disordinata e caotica, foriera di insicurezza sociale e capace di suscitare reazioni di intolleranza e di vero e proprio razzismo. Ma poiché fare il processo alle intenzioni è sempre un’operazione rischiosa è bene concentrarsi sui fatti.
E i fatti sono – per esempio – lo smantellamento delle misure di accoglienza che, pur inadeguate, avevano comunque iniziato a dare buona prova soprattutto a livello di territorio. E, ancora, il binario morto in cui sono finite le soluzioni normative orientate all’integrazione, come lo ius culturae. Allo stesso tempo non decollano i canali per l’immigrazione regolare, al di là dell’impegno meritorio di realtà religiose e terzo settore. E quel che pure si fa a livello delle istituzioni, per quanto limitato (come il decreto flussi), viene quasi silenziato sul piano della comunicazione per non contraddire la narrazione dominante sul pericolo migratorio.
L’altro vizio logico investe la dimensione internazionale e chiama in causa il cosiddetto “sovranismo”. Qui siamo veramente al paradosso. Gli stessi soggetti – governi o partiti – che cavalcano ideologicamente il fenomeno delle migrazioni e su di esso hanno costruito buona parte delle loro fortune, sono i primi a mettersi di traverso e a impedire l’adozione di quelle misure di ampio respiro che la portata del fenomeno richiederebbe. Un circolo vizioso che finisce per far cadere nella trappola delle rincorse elettoralistiche anche i soggetti – governi o partiti anche in questo caso – che nel loro dna avrebbero un tasso di apertura nettamente maggiore. Se ognuno si illude di poter tutelare soltanto i suoi (presunti) interessi, ci si avvita in un percorso senza uscita. E a risultare penalizzati sono soprattutto i Paesi più esposti, come il nostro.
Stefano De Martis
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