Il presepe di Greccio è un affresco realizzato da Giotto (1267-1336) nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Si tratta della tredicesima delle ventotto scene del ciclo con le storie di San Francesco, dipinte dal giovane maestro toscano tra il 1290 e il 1295.
Nonostante le fonti rivelino che Francesco avesse scelto una grotta per ambientare il presepe, Giotto preferì ricostruire l’episodio nel presbiterio di una chiesa che ricorda la Basilica inferiore di Assisi.
Lo spettatore assiste idealmente all’evento come se si trovasse in prossimità dell’abside e da qui può ammirare il contesto architettonico e gli arredi liturgici: un ciborio che ricorda quelli romani di Arnolfo di Cambio; il leggio adornato di un candelabro a nove braccia (quest’ultimo in uso nei monasteri per la novena di Natale col canto delle antifone maggiori); il pulpito visto dal lato dell’ingresso, la croce che pende verso la navata.
In primo piano, san Francesco, vestito di paramenti diaconali, prende il bambino fra le braccia per deporlo nella mangiatoia. Il piccolo Redentore è avvolto in una veste rossa regale. Intorno a lui, una folla di persone assiste alla scena. Le donne, che non possono entrare nella zona presbiterale, osservano dalla porta. Alcuni frati francescani pregano e altri cantano. Tenera l’immagine dell’asinello, qui mostrato in miniatura, come se fosse una statuetta, che si volta verso il Bambino pieno di stupore.
La rappresentazione dello spazio architettonico è concreta e realistica, in particolare il crocifisso, inclinato e ancorato ad un sostegno che ci fa scoprire come erano sostenute le croci, e il pulpito alla sinistra si protendono verso la navata che non si vede ma di cui si intuisce la profondità.
Anche la collocazione dei personaggi in questo spazio è geniale: uomini, donne, laici e frati insieme a contemplare questo mistero appaiono su piani diversi, senza dare l’effetto di schiacciarsi l’uno l’altro e di librarsi nell’aria.
Da ultimo i cantori che intonano un canto polifonico, guardano lo spartito e appaiono più alti degli altri ma chiaramente si trovano in piedi sugli stalli del coro. Si riconoscono tre tenori che cantano con molta enfasi e un basso con la bocca più chiusa.
Un capolavoro da contemplare magari in sinossi col racconto che il Celano fa del Natale, di come san Francesco lo ha voluto e realizzato.
Mi si consenta, in questo anno manzoniano, di citare l’ultima strofa de Il Natale del 1813:
“Dormi, o celeste: i popoli
chi nato non sanno;
ma il dì verrà che nobile
retaggio tuo saranno,
che in qull’umil riposo
che nella polve ascoso,
conosceranno il Re”.
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