Il disegno di legge sull’autonomia differenziata – il ddl Calderoli – è stato approvato dal Senato il 23 gennaio ed è attualmente all’esame della Camera, dove finora non ha tenuto ritmi particolarmente sostenuti.
I suoi tempi sembrano strettamente legati a quelli del premierato, riforma che è il cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia tanto quanto l’altra è nel cuore della Lega.
Ciascuno di questi due partiti vorrebbe arrivare alle elezioni europee con un risultato di bandiera da sfruttare in chiave di propaganda. Ma l’elezione diretta del premier segue il percorso assai più lungo della revisione costituzionale e forse i suoi sostenitori dovranno accontentarsi di portare a casa la prima delle quattro deliberazioni richieste dalla Costituzione, mentre teoricamente ci sarebbero i margini per varare in via definitiva il ddl Calderoli.
Resta però da capire se nella competizione dell’8 e 9 giugno (per Strasburgo si vota con il proporzionale e ognuno corre per sé) Giorgia Meloni intenda lasciare a Matteo Salvini la carta della “sua” riforma finalmente approvata. Fermo restando che, non a caso, dentro il testo del ddl è stato inserito un meccanismo che potenzialmente rinvia a tempo indeterminato la piena attuazione delle intese con le Regioni che chiedono la “superautonomia”.
Essa viene infatti subordinata alla definizione e applicazione dei Lep, una sigla che sta per Livelli essenziali delle prestazioni, da garantire su tutto il territorio nazionale nelle materie di rilevanza sociale e civile.
Magari fosse così. Sull’efficacia dei Lep nel realizzare il compito per cui sono stati concepiti ci sarebbe molto da discutere. Il precedente dei Lea, i Livelli essenziali di assistenza da assicurare in campo sanitario, è sconfortante, dato che proprio in questo ambito di vitale importanza le disuguaglianze tra i territori – e quindi tra i cittadini – sono arrivate a livelli drammatici, come ha recentemente documentato anche un rapporto della Fondazione Gimbe di Bologna.
Rapporto che denuncia il pericolo di un “collasso” del sistema qualora venisse attuata l’autonomia differenziata, almeno nei termini in cui è stata impostata nel ddl governativo. Oltre a delicatissimi profili istituzionali, si pone una cruciale questione di risorse.
Se si stabilisce che da tale provvedimento e dalle eventuali intese con le Regioni non dovranno derivare “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” – tant’è vero che al momento non è stato stanziato neanche un euro a questo fine – non si capisce dove andrebbero reperiti i fondi per garantire i Lep. E ne servirebbero tanti perché il punto di partenza è una situazione fortemente squilibrata.
In un contesto del genere, attribuire ad alcune Regioni larghissime competenze in materie di fondamentale importanza finirebbe per cristallizzare, se non aumentare, i divari esistenti.
Ma anche le Regioni economicamente più ricche alla lunga sarebbero penalizzate da una frammentazione delle politiche pubbliche che contrasta con la necessità di assicurare agli interventi una dimensione appropriata per competere in uno scenario in cui gli stessi Stati risultano chiaramente inadeguati. Mentre si invoca un ruolo più unitario dell’Europa in tutti i campi proprio per poter incidere su processi di scala sempre maggiore, appare una contraddizione stridente spezzettare la Repubblica in tanti staterelli.
Le autonomie possono rappresentare una grande risorsa per il Paese se vengono inscritte in un disegno cooperativo che consente di fare squadra, non se vengono messe in competizione tra loro.
Stefano De Martis
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