Tornano in campo i referendum abrogativi. Riguardano autonomia differenziata, Jobs Act e cittadinanza, per un totale di sette quesiti che ora dovranno superare il vaglio di ammissibilità presso la Corte costituzionale. Il responso è atteso per gennaio.
Sull’autonomia ci sarà un primo passaggio cruciale già a novembre, quando la Consulta esaminerà i ricorsi che le Regioni guidate dal centro-sinistra hanno presentato utilizzando il canale diretto previsto dalla Costituzione.
Perché il procedimento possa avere luogo esse dovranno innanzitutto dimostrare che la legge Calderoli lede i loro interessi.
Come interpretare la nuova impennata referendaria? È un segnale che può essere agevolmente ricondotto alla crisi della rappresentanza politica tradizionale, ma è anche il sintomo di una vitalità democratica che non trova altri strumenti per esprimersi.
Un dato nuovo da considerare è quello della possibilità della firma digitale. Tempi e costi della raccolta delle firme cambiano radicalmente, se basta un click.
Il mezzo milione di sottoscrizioni diventa un obiettivo alla portata di molti, anche se poi (ammesso che la Consulta dia il via libera) bisogna portare alle urne 25 milioni di elettori perché la consultazione sia valida.
C’è il rischio di ritrovarsi con referendum a raffica che non conducono a nulla. Ecco perché si discute dell’ipotesi di aumentare drasticamente il numero delle firme da raccogliere e, allo stesso tempo, di abbassare il quorum.
Qui oltre agli aspetti tecnici si impone una riflessione sul senso complessivo dello strumento referendario.
Da un lato bisogna scongiurare il pericolo che un uso distorto possa indurre una deriva plebiscitaria del sistema; dall’altro la valorizzazione delle forme di democrazia diretta può costituire un utile bilanciamento a fronte di un ruolo sempre più forte dell’esecutivo.
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