Il 18 dicembre 2020, con la pubblicazione dell’editto, mons. Giuseppe Giudice ha ufficialmente aperto il processo di beatificazione e canonizzazione di don Enrico Smaldone, sacerdote della diocesi di Nocera Inferiore-Sarno (1914-1967), fondatore della Città dei Ragazzi, una casa che accoglieva ragazzi soli e abbandonati. Negli anni passati in più occasioni abbiamo scrutato con attenzione le tappe di questa vicenda luminosa che appartiene di diritto alla storia della Chiesa locale.
Abbiamo scelto di ritornare su questo tema con una serie di articoli che intendono mettere in luce la spiritualità del Servo di Dio. Questo approfondimento è affidato a don Silvio Longobardi che ha studiato la vita del sacerdote angrese e nel 2011 ha curato la pubblicazione di un libro che raccoglie tutti gli scritti di don Enrico.
Duemila anni fa. Per narrare la vita di don Enrico Smaldone devo partire da lontano, da un Uomo che ha dato una svolta decisiva e duratura alla storia dell’umanità. Si chiama Gesù di Nazaret. Il verbo è al presente. Questa vicenda non appartiene al passato ma è più viva che mai, non è sigillata nei libri di storia ma viene continuamente scritta da tutti coloro che lo riconoscono come Maestro e Signore.
Don Enrico apparteneva a questa categoria, si è iscritto alla scuola del Vangelo fin dalla fanciullezza, nell’adolescenza ha accolto la chiamata a lasciare tutto per Lui, nella giovinezza ha ricevuto la grazia di essere consacrato Suo ministro, nella vita adulta s’è impegnato a vivere come Lui, consumando ogni energia, fino a dare la vita. Solo a partire da questo legame con Gesù – coltivato e custodito con la massima cura – possiamo comprendere le scelte fondamentali della sua vita. Non sarebbe diventato il prete degli orfani e dei ragazzi di strada, se non fosse stato il ministro di Dio.
Don Enrico conosceva bene il Vangelo, non solo lo aveva studiato ma lo meditava ogni giorno e lo predicava con passione. Conosceva bene quella pagina in cui Gesù presenta sé stesso: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la vita, in riscatto per tutti” (Matteo, 20,28). Una nota autobiografica con la quale Gesù definisce la sua carta d’identità e quella di coloro che scelgono di stare con Lui. E conosceva bene anche un altro insegnamento, quello in cui il Nazareno afferma che l’unica ambizione del discepolo è quello di essere “come il suo maestro” (Luca, 6,40). È questa la regola che ha ispirato e illuminato i suoi passi.
Un prete non è un funzionario di un’azienda, non è il coach della carità, non è il testimonial della solidarietà, è un credente affascinato da Cristo, un uomo che accoglie la parola del Maestro senza se e senza ma, un discepolo che desidera incarnare nell’oggi della storia un frammento di quella carità che Gesù ha consegnato ai discepoli come un comando: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni” (Matteo, 10,8). A prima vista una mission impossible, una vera e propria utopia. E invece sappiamo che quelle parole hanno illuminato e ispirato la vita di tani santi che, nel corso dei secoli, hanno creduto e hanno dato credito al Signore e hanno fatto della loro vita un Vangelo vivente.
È questa la coscienza sacerdotale di don Enrico. L’idea di fondare la Città dei Ragazzi emerge agli inizi del 1949. In realtà, tutto inizia otto anni prima e precisamente il 13 luglio 1941: quel giorno don Enrico fu consacrato sacerdote. Fu quella la sua Pentecoste, il fuoco dello Spirito diede una particolare intensità alla sua breve vita sacerdotale. Il giovane prete inizia il suo ministero nel contesto di una condizione sociale gravata da guerra e povertà ma s’impegna con tutta la passione e l’ingenuità di chi sogna di costruire un mondo nuovo.
Le opere di carità nascono dal cuore di Dio ma si realizzano storicamente quando trovano spazio nel cuore dell’uomo, quando cioè incontrano qualcuno che è disposto ad accogliere la sfida del Vangelo ed è pronto a lottare per realizzare anche solo un frammento di quel Regno inaugurato da Gesù. Fin dall’inizio don Enrico s’impegna con una generosità pari alla sua audacia, crede fermamente nell’opera, vuole realizzare a tutti i costi quello che lui stesso chiama il sogno. E tuttavia, sa bene di essere solo un esecutore. Nella lettera che da Roma manda ai suoi amici che attendono con ansia di conoscere i frutti della sua missione, il Servo di Dio racconta dettagliatamente tutti gli incontri e le strategie messe in campo per ottenere le risorse economiche necessarie ma lo fa con la convinzione che “il Signore è il primo architetto e costruttore della nostra Città”, è Lui che apre le strade e dona forza e vigore.
Una delle prime pagine degli Atti degli apostoli riporta la guarigione di uno storpio conosciuto da tutti perché sedeva ad una delle porte che portavano al Tempio (Atti, 3, 1-10). Un fatto straordinario che, come sempre avviene in questi casi, suscita stupore ed entusiasmo tra la gente. Tutti guardano verso Pietro, in effetti è lui che ha detto all’uomo: “Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!” (Atti, 3,6). L’apostolo sa bene di essere solo un intermediario, un Altro è il vero autore e lo dice con la più grande chiarezza: è la fede in Gesù che ha ridato vigore allo storpio. Un annuncio che risuona continuamente lungo i secoli.
Questa pagina biblica tratteggia assai bene la vicenda umana e spirituale di don Enrico. Se qualcuno, al termine della vita, gli avesse chiesto cosa lo ha convinto a iniziare e chi gli ha dato il coraggio di continuare l’avventura della carità, avrebbe risposto semplicemente, con un sorriso: “Nel nome di Gesù”.
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