“Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera delle tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella, per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Costui, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, li pregava per avere un’elemosina” –
(Atti, 3, 1-3)
La vicenda di don Enrico è un frammento di una storia che da duemila anni illumina il cammino dell’umanità. È la storia della Chiesa, un popolo che nel nome di Gesù semina gioia e speranza. Vorrei perciò partire da una pagina degli Atti degli Apostoli, quella che descrive i primi passi della comunità dopo la Pentecoste: è una vita ritmata dalla preghiera e dalla fractio panis (At 2,42) ma fin dall’inizio è accompagnata anche da “segni e prodigi” (2,43). Annuncio della Parola e testimonianza della carità si intrecciano armoniosamente, come facce della stessa medaglia. In questo contesto si inserisce un episodio che accende i riflettori sulla giovane comunità e genera un conflitto con le autorità religiose di Gerusalemme che, nel corso degli anni, diventerà sempre più oppositivo.
Sulla porta del Tempio. Pietro e Giovanni sono i protagonisti di questo racconto. Sulla porta del Tempio, dove si recano per la preghiera del pomeriggio, incontrano uno storpio che chiede l’elemosina. Potrebbe essere un incontro come tanti altri, frettoloso, sbrigativo, un breve sguardo forse pieno di compassione e via… Pietro e Giovanni hanno un appuntamento molto più importante. E invece quel giorno decidono di fermarsi. Non sono spinti solo dall’umana compassione ma dalla fede, sanno per esperienza che Gesù non è rimasto in disparte ma si è lasciato toccare dall’umana sofferenza del lebbroso (Mc 1, 40-45), ha avuto compassione della folla (Mt 9,35), si è fermato dinanzi al corteo funebre ed ha ridato la vita al ragazzo (Lc 7, 10-17), ha risposto alla fame della gente dando il pane in abbondanza (Gv 6, 1-15).
Pietro e Giovanni vanno al tempio, come facevano prima. Pregano insieme agli altri giudei ma portano nel cuore una più grande certezza, una speranza nuova: sanno che Cristo è Risorto, questa certezza è come un fuoco che non possono nascondere, come un tesoro che non possono custodire gelosamente. Ed è questa certezza che permette loro di non guardare lo storpio con quella mentalità fatalistica con cui spesso giudichiamo cose e persone. Essi sanno di avere una parola nuova da dire e da dare.
Il fuoco della carità. Don Enrico vive a stretto contatto con una Chiesa che sperimentava la potenza della carità: basta citare sant’Alfonso Maria Fusco (1839-1910) e il beato Bartolo Longo (1841-1926). Il primo ad Angri e il secondo a Pompei. Entrambi, nell’ultimo scorcio del Novecento, avevano dato inizio ad opere di accoglienza che mostravano il volto di una Chiesa che, fedele al Vangelo, si prende cura dei più deboli. Non è un dettaglio secondario. È accaduto, e purtroppo accade anche oggi, che il clima mediocre della vita ecclesiale smorza l’ingenuo entusiasmo dei giovani e soffoca i buoni desideri. Al contrario, la testimonianza dei santi non solo scrive nuove pagine di Vangelo ma accende un fuoco che illumina e suscita altri progetti di bene. Don Enrico respira la carità che altri hanno seminato con generosità. Accoglie il seme con la docilità del terreno.
Con umiltà nella Chiesa locale. Don Enrico inizia il ministero sacerdotale il 13 luglio 1941, il giorno stesso in cui riceve il sigillo dello Spirito che lo consacra “sacerdos in aeternum”. Si inserisce con umiltà nella Chiesa locale. La certezza della chiamata mette nel cuore santi desideri ma la vita cresce gradualmente. Il giovane prete fin dall’inizio s’impegna su diversi fronti. Negli stessi anni diventa assistente della FUCI (Federazione universitaria dei cattolici); rettore della Confraternita di santa Caterina e cappellano delle suore Battistine. In quanto rettore della Congrega, si preoccupa di dare agli adulti una dottrina solida; in quanto assistente della FUCI accompagna le giovani leve universitarie.
Nel 1945 fonda un gruppo Scout, una scelta che fa emergere il suo amore per la gioventù e il desiderio di offrire ai ragazzi spazi di sana aggregazione e di spiritualità; e di comunicare una fede che accoglie e vivifica tutti i valori umani.
In queste scelte possiamo intravedere la sua ansia missionaria, il desiderio di partecipare attivamente alla vita della Chiesa, senza misurare le forze. Non era diventato prete per stare al riparo, non cercava una vita comoda. Era pronto a consumare la sua vita.
Non basta. Tutto questo non basta. Don Enrico porta nel cuore un desiderio, lo tiene nascosto con pudore, come una madre custodisce il suo bambino quando è ancora nel grembo. Pochi anni dopo, quando darà inizio al progetto della Città dei Ragazzi,confesserà ai giovani di Azione Cattolica: “la mia idea non è un’avventura ma il frutto di una lunga profonda meditazione. È da anni che io penso alla costruzione di una casa che avrebbe dovuto dare asilo a tanti fanciulli abbandonati nella vita cui la morte aveva strappato i sacri affetti dei genitori, ma le immani difficoltà mi hanno sempre trattenuto da questa idea”.
Pronuncia queste parole l’11 febbraio 1949, ha 34 anni e da meno di otto è sacerdote. Quando dice che pensa “da anni” alla costruzione di una casa per i fanciulli abbandonati, vuol dire che quel sogno è nato nel tempo della guerra, dinanzi alle tragiche conseguenze del conflitto. Mentre gli altri guardavano rassegnati quel che accadeva, lui si sentiva interpellato.
Non aveva risposto subito perché pensava di non essere capace ma nella vita accadono eventi in cui sentiamo la mano di Dio che ci trascina dentro la storia e comprendiamo che non possiamo tirarci indietro. Proprio come accade quel giorno a Pietro e Giovanni.
don Silvio Longobardi
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