Il missionario della misericordia è «un confessore scalzo» capace di instaurare con il penitente un itinerario di conversione e di rinascita che parte dalla coscienza di essere «peccatori perdonati», come ripete stesso papa Francesco.
A tracciare l’identikit dei 1.142 Missionari della misericordia, nuova figura pastorale inaugurata da Francesco con il Giubileo della misericordia del 2016 e confermata per il Giubileo, è don Vito Impellizzeri, da quest’anno nuovo preside della Facoltà teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista” di Palermo.
I missionari della misericordia sono stati “ambasciatori” del Papa durante il Giubileo straordinario del 2016 e sono stati confermati anche nella Bolla di indizione dell’Anno Santo. Che significato ha il loro compito pastorale?
«Sono stato Missionario della misericordia dalla prima ora, a cominciare dal Giubileo straordinario della misericordia indetto da papa Francesco nel 2016, ed è stata davvero un’esperienza molto forte. Siamo stati figure nuove, che dovevano rilanciare l’abitudine alla confessione. Il compito più forte del missionario della misericordia è per me quello di coniugare il senso della misericordia con la coscienza del peccato, che ha a che fare con la sfera della libertà e delle scienze umane. In primo luogo, per riavvicinare al sacramento della Penitenza bisogna essere capace di leggere i contesti: in un contesto complicato e spesso ferito, come quello di Palermo, occorre tener conto di alcune cose genetiche, come la mentalità di potere.
Il problema è allora come coniugare insieme il senso della misericordia in senso pieno, che viene dalla misericordia paterna di Dio, con il senso della responsabilità personale di fronte al peccato.
Nasce da qui il discernimento e la formazione alla libertà responsabile: la cosa più bella è incontrare nel confessionale persone la cui sacralità è legata alla propria coscienza, che non va mai calpestata».
Come definirebbe, quindi, la figura del confessore?
«A me piace parlare di un confessore a piedi scalzi, che aiuti il penitente a considerare santa la terra della propria coscienza, cercando di mettere insieme la misericordia divina e la consapevolezza del proprio peccato.
Il risultato è una coscienza grata per la misericordia ricevuta e nello stesso tempo consapevole di dover esercitare la propria libertà come responsabilità. Il primo imperativo, per il confessore, è quello di avere i piedi saldi, di non fare domande un po’ pruriginose, domande cioè rivolte più a sapere che ad aiutare.
Un confessore scalzo sta accanto al penitente per instaurare insieme a lui la pedagogia del dialogo, fatta anzitutto di un ascolto attentissimo volto a stimolare l’altro affinché instauri un rapporto con la penitenza non come condono misericordioso, ma come opportunità per intravedere vie concrete di rinascita.
Indicare orientamenti di rinascita è, a mio avviso, uno dei compiti da svolgere a fianco del penitente, attraverso un itinerario che si rinnova di confessione in confessione. Non da ultimo, il confessore deve avere un rapporto di frequentazione personale e assidua del sacramento: io mi confesso spesso, e chi non lo fa non è un buon confessore».
Come ci insegna Papa Francesco, riconoscersi bisognosi di misericordia è il primo passo del cammino cristiano. In base alla sua esperienza, c’è la consapevolezza di essere “peccatori perdonati”, in quello che Bergoglio chiama il “santo popolo fedele di Dio”?
«Paradossalmente, ho sperimentato che la coscienza piena di essere peccatori perdonati si riscontra più frequentemente in coloro che hanno fatto un’esperienza di radicale conversione, di totale cambiamento di rotta, piuttosto che tra chi frequenta abitualmente il confessionale e che si trova spesso a chiedersi quali peccati debba confessare. Un’esperienza forte di conversione è infatti il primo passo per acquisire piena coscienza dei propri peccati e mettersi sulla via del reale cambiamento di vita. Casi come questi disarmano perfino il confessore: dopo confessioni del genere, mi è capitato di sentire a mia volta in modo molto forte il desiderio di accedere al sacramento della penitenza».
La misericordia, come sappiamo dalla storia dei giubilei, ha anche un valore sociale: come ridare dignità, in questo anno giubilare, ai nostri fratelli e sorelle che vivono sotto le bombe o sono costretti a fuggire dai loro Paesi a causa della guerra, della fame e della miseria?
«Anzitutto cercando di avviare percorsi di perdono tra vittime e carnefici, come stiamo cercando di fare qui a Palermo favorendo incontri tra le persone che siano occasioni favorevoli per esperienze di giustizia riparativa basati su processi di riconoscimento dell’altro. Solo in questo modo, infatti, si arriva a comprendere che la giustizia non passa per le armi, di qualunque tipo esse siano, o dalla logica di un perdono strettamente legalistico, bensì dalla reciprocità».
Nella sua ultima enciclica, Dilexit nos, il Papa ha esortato a riscoprire la centralità del cuore, in un mondo che sembra averlo perso. C’è un auspicio per il Giubileo imminente che porta nel suo cuore?
«Non è il Giubileo che fa la Chiesa, ma la Chiesa che fa il Giubileo. A Roma convergeranno decine di milioni di turisti: mi piacerebbe che almeno un decimo di loro possano fare l’esperienza del pellegrinaggio, che scoprissero il senso della fede come cammino, all’insegna del legame tra il Giubileo e la sinodalità».
M.Michela Nicolais/Sir
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