Una carità scomoda

La vita di don Enrico Smaldone è segnata da una duplice chiamata. La prima lo porta in seminario, la seconda, scaturita dalla visione di un film e dall’incontro con un bambino povero che bussa alla sua porta, accende nel suo cuore il desiderio di fondare ad Angri la Città dei Ragazzi.
10 luglio 1949, posa della prima pietra

Allora, fissando lo sguardo su di lui, Pietro insieme a Giovanni disse: «Guarda verso di noi». Ed egli si volse a guardarli, sperando di ricevere da loro qualche cosa. Pietro gli disse: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, àlzati e cammina!» (Atti, 3, 5-6).

La vicenda di Pietro e Giovanni che incontrano lo storpio sulla porta del Tempio è un’eloquente cornice per rileggere l’esperienza vissuta da don Enrico. L’uomo non può camminare e non possiede una sua autonomia, vive di quello che gli altri possono dare. Si limita a chiedere l’elemosina, non aspetta altro, non pensa neppure di poter ricevere qualcosa di più grande. È icona di quell’umanità che, ieri come oggi, si accontenta delle briciole.

Quel giorno Pietro e Giovanni deludono le sue attese, non rispondono alla sua domanda, cercano piuttosto di far nascere nel suo cuore un’altra e più decisiva domanda. Se avessero dato l’elemosina, quell’uomo non avrebbe mai fatto esperienza della potenza salvifica di Gesù. Gli apostoli sanno di essere ministri di una Chiesa povera e serva, una Chiesa che non ha altra ricchezza se non Cristo. Per questo Pietro gli dice: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, alzati e cammina!». Queste parole manifestano la coscienza di un pastore che non si limita a dargli l’elemosina e non si accontenta di dirgli parole di consolazione; s’impegna piuttosto ad annunciare e comunicare la sua fede in Gesù Cristo, l’unico che può davvero salvarlo e dargli la gioia, una gioia più grande di quella che egli stesso possa immaginare.

Una nuova chiamata

La vita di un credente, e tanto più quella di un prete, è segnata dalla vocazione. Possiamo distinguere una duplice chiamata. La prima ci fa diventare discepoli, la seconda ci chiede di essere apostoli. La prima ci nutre, la seconda ci chiede di nutrire. Sono due chiamate strettamente intrecciate. Solo chi è discepolo, può diventare apostolo. E solo chi resta discepolo può custodire la vocazione apostolica.

Don Enrico ha ricevuto la prima chiamata quand’era giovane. Quella voce, forte e suadente, lo portò in seminario. Quando divenne prete si trovò immerso in una guerra che seminava dolore e lasciava rovine, nel cuore e nel corpo. La seconda chiamata risuonò altrettanto forte agli inizi del 1949, prima la visione del film e poi l’incontro con quel ragazzo che bussa alla sua porta. Il film suscitò un’attenta meditazione, l’incontro fece il resto. Quel bambino che ha bussato alla sua porta, come lo storpio del Tempio, chiedeva solo l’elemosina, qualcosa per andare avanti. Don Enrico invece vuole dargli molto di più. E non solo a lui ma a tanti altri che sperimentavano la stessa misera condizione. A tutti gli altri, se possibile.

Una carità scomoda

Don Enrico non era un tipo da perdersi in chiacchiere, decise di passare subito all’azione. Evidentemente, seguiva una regola evangelica che suona più o meno così: quando Dio chiama, non dobbiamo farlo attendere.

La carità è scomoda compagna perché invita a uscire dalla casa dei sogni e costringe a mettersi in cammino. Don Enrico non ha risorse per realizzare l’opera, ha solo la fede e la certezza che Dio gli ha affidato una missione. Questo gli basta per buttarsi in quella nuova avventura con l’entusiasmo di un bambino. Conosce le difficoltà che dovrà incontrare ma Gesù assicura che la fede è capace di spostare le montagne. E lui si fida. Per questo s’incammina con una decisione che all’esterno potrebbe apparire frutto di una baldanza giovanile, in realtà, la sua è solo l’audacia degli umili.

È una storia tutta da raccontare, mi limito a ricordare le prime tappe.

Il 6 gennaio 1949, don Enrico vede il film Gli uomini della città dei ragazzi che racconta la vicenda di padre Flanagan, un sacerdote che aveva fondato nel Nebraska una casa per giovani in difficoltà. L’11 febbraio dello stesso anno annuncia il suo progetto, durante un discorso rivolto ai giovani di Azione Cattolica. Pochi giorni dopo, il 13 febbraio, un corteo in festa arriva in un terreno di 5.000 metri quadrati donato dal dottor Giuseppe Adinolfi dove affigge un cartello con la scritta: «Qui sorge La Città dei Ragazzi». Il 10 marzo 1949, stila il “Metodo pedagogico” da adottare nella Città e il 10 luglio vi è la posa della prima pietra dell’opera. Nel 1950 accoglie a casa sua Pasquale Cirillo, un bambino raccolto sulla strada Pompei-Scafati dove era stato travolto da una macchina. Il 4 marzo 1951, don Enrico e i primi ragazzi si trasferiscono nella costruenda Città in una piccola casetta di blocchi realizzata dalla ditta Lamaro per custodire gli attrezzi. Da quel momento, la Città cominciò a prendere forma. Ad agosto dello stesso anno viene impiantata la falegnameria: sono i ragazzi stessi che realizzano gli infissi per la Città. Il 25 dicembre 1953, la Città ospita già decine di ragazzi dando forma al sogno di don Enrico di offrire loro una casa, un’educazione e un futuro.

Suor Flavia, una suora battistina che ha conosciuto bene don Enrico, vedendolo sempre affaticato e magro, gli diceva: «Curatevi la salute!». Indicando il Cielo, il sacerdote rispondeva: «Lo deve sapere Lui, è sua la mia salute. Io, la mia, la devo spendere per i miei ragazzi. Me li ha affidati Nostro Signore, non l’autorità terrena. Ed io li devo saper custodire ed amare!». All’amico Federico Russo, il 31 maggio 1951, scrive: «A volte mi sento tanto stanco, vorrei concedermi un po’ di riposo, ma poi mi riprendo subito: non bisogna fermarsi neanche un attimo fino a quando non avremo raggiunta la meta. È vero che arriveremo esausti, ma che importa quando il nostro ideale è raggiunto? Neanche la morte ci spaventerà più allora, quando avremo assolto il compito che Dio ci ha assegnato».

Aveva imparato dal Vangelo che il buon pastore non fugge dinanzi al lupo ma cerca in tutti i modi di salvare le sue pecore. Non importa se questo vuol dire mettere a rischio la propria vita. Un pastore non si rassegna, non consegna agli altri i figli che la Provvidenza gli affida. Risponde di persona. E paga di persona.

Silvio Longobardi

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