Maria Romana De Gasperi raccontò che una delle rare volte in cui vide piangere il padre Alcide fu quando, al telefono con Amintore Fanfani, egli ebbe la certezza che la Comunità europea di difesa non sarebbe mai nata, a causa soprattutto dell’opposizione francese. “Vidi le lacrime che scendevano senza vergogna sul volto ormai vecchio di mio padre”, riferì la figlia dello statista trentino ricordando quei momenti di eccezionale amarezza e intensità emotiva.
Erano gli anni Cinquanta, il secondo conflitto mondiale era finito da pochi anni e i protagonisti di quella stagione politica avevano ben chiaro che cosa significasse in concreto la guerra. Le lacrime di un gigante come De Gasperi – che pure fu il principale artefice del posizionamento dell’Italia nell’Alleanza atlantica – stridono in modo incomponibile con l’enfasi bellicista che circonda in troppi casi i discorsi che oggi si fanno sulla difesa a ogni livello, compreso quello europeo.
Viene tutto ridotto a una questione di armamenti da produrre e da vendere, con una competizione feroce per accaparrarsi quote di un mercato che non conosce ribassi, ma che macina record su record. Solo per fare degli esempi indicativi, nel 2024 i ricavi delle cinque maggiori aziende statunitensi hanno superato i 200 miliardi di dollari e la principale industria cinese del settore ha segnato in borsa un incremento del 198 per cento. L’economia russa è praticamente tutta orientata alla produzione bellica e Trump pretenderebbe dai Paesi Nato un aumento della spesa bellica dal 2 al 5 per cento del Pil.
Per De Gasperi, invece, il progetto di una difesa europea andava collocato all’interno di una prospettiva il cui baricentro era essenzialmente politico e in questo la sua visione lungimirante è di grande attualità anche oggi. Il balzo in avanti di cui l’Europa ha bisogno non riguarda la produzione di armamenti. Paradossalmente si potrebbe persino arrivare a dire che con una difesa comune servirebbero meno armi perché il loro eventuale (speriamo mai) utilizzo sarebbe razionalizzato e quindi molto più efficiente.
Ma il punto è un altro: il salto di qualità che l’Europa deve compiere è quello che va nella direzione di un soggetto più unitario e coeso.
Ciò che serve è un’Europa politicamente unita e forte. Essa avrebbe una capacità di dissuasione e un potenziale costruttivo negli equilibri mondiali molto superiore a quelli derivanti da qualsiasi rafforzamento delle sue risorse militari. L’accanimento di Trump contro l’Unione europea è rivelatore. E chi anche in Italia rema contro la costruzione di “uno spazio politico europeo effettivamente integrato” (parole di Sergio Mattarella) fa oggettivamente o volutamente il gioco dei signori della guerra.
C’è bisogno di più forza politica, non di più armi. E’ la via indicata anche dalla nostra Costituzione. Il fondamentale art.11 da un lato afferma che l’Italia “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” e allo stesso tempo consente “alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”, promuovendo e favorendo “le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Quelle stesse che in questa fase storica di “ordine del caos” (titolo dell’ultimo numero della rivista di geopolitica Limes) sono sottoposte a una costante azione di smantellamento.
Stefano De Martis
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