È Pasqua. E non una Pasqua qualsiasi, perché quest’anno la Pasqua cattolica torna nuovamente a coincidere con la Pasqua ortodossa (l’ultima volta era capitato nel 2017). E, come ad ogni coincidenza di questa celebrazione, si riapre la discussione circa la possibilità di uniformare in via definitiva i due metodi di calcolo della data della Pasqua.
Il 25 gennaio scorso, nella celebrazione conclusiva della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, papa Francesco ha detto: «Rinnovo il mio appello affinché questa coincidenza serva da richiamo a tutti i cristiani a compiere un passo decisivo verso l’unità, intorno a una data comune, una data per la Pasqua; e la Chiesa cattolica è disposta ad accettare la data che tutti vogliono fare: una data dell’unità».
Classe 1974, originario di Ariano Irpino, monsignor Massimiliano Palinuro è dal 2021 vicario apostolico di Istanbul, città più popolosa della Turchia e che si estende su due continenti (Europa e Asia).
Sostenitore di un ecumenismo “dei fatti” e stimato pastore, ha risposto con generosità alle nostre domande circa la celebrazione comune del mistero della Risurrezione di Cristo, consentendoci di ampliare la riflessione anche ad altri argomenti di attuale interesse.
Eccellenza, come bisogna leggere questa coincidenza di una data comune della celebrazione della Pasqua cattolica, ortodossa e protestante?
«Si tratta di una coincidenza che diventa augurio, nella speranza che essa non sia soltanto una rara eccezione, una coincidenza appunto, ma diventi una regola per la celebrazione della Pasqua, affinché, in un mondo lacerato da tante divisioni, i cristiani possano esprimere come segno di unità e fraternità la celebrazione dell’unico mistero pasquale in un’unica data».
La volontà di trovare un accordo c’è da parte della Chiesa cattolica, mentre non è così evidente da parte degli ortodossi. A chi tocca fare il primo passo?
«I criteri per il calcolo della Pasqua furono stabiliti nel concilio di Nicea, di cui celebriamo quest’anno il diciassettesimo centenario. Il calendario gregoriano (adoperato dai cattolici, ndr) è quello più fedele a tali criteri e ciò viene riconosciuto anche dagli ortodossi più aperti e dialoganti. Ma poiché gli ortodossi sono privi di una guida unica, è estremamente complicato per loro decidere di celebrare la Pasqua seguendo il calendario gregoriano. Per questa ragione il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo ha chiesto a papa Francesco di valutare la possibilità di celebrare la Pasqua cattolica seguendo i criteri del calendario giuliano (adoperato dagli ortodossi, ndr). L’ostacolo del patriarcato di Mosca blocca di fatto ogni decisione all’interno del mondo ortodosso. Dunque, l’unica possibilità sarebbe quella di un allineamento da parte della Chiesa Cattolica».
Occorre coraggio?
«Si tratterebbe senza dubbio di una scelta molto coraggiosa, anche perché va ricordato che il calendario gregoriano fu voluto da papa Gregorio XIII proprio per correggere gli errori del calendario giuliano nel computo della Pasqua. In ogni caso sarebbe una scelta dalla grande valenza pastorale e, a mio avviso, necessaria».
Ha citato la ricorrenza del diciassettesimo centenario del concilio di Nicea. Cosa ha rappresentato quel momento nella storia della Chiesa e cosa dice oggi ai cristiani?
«Quello di Nicea è il concilio per eccellenza, il paradigma attraverso cui la Chiesa può comprendere come risolvere al suo interno problemi dottrinali e divisioni di varia natura. L’anniversario del concilio di Nicea assume un’importanza straordinaria, soprattutto perché esso è patrimonio comune di tutte le confessioni cristiane. Nessuno tra i cristiani nega i concili di Nicea e di Costantinopoli perché in essi la fede cristiana ha ricevuto la sua prima formulazione. Si pensi al Credo che recitiamo ogni domenica. Questa ricorrenza rappresenta un auspicio perché si ritorni alle sorgenti della fede e si ricerchi l’essenziale, ciò che unisce piuttosto che ciò che divide».
Eccellenza, lei è alla guida di una piccola ma vivace comunità cattolica che insiste su un territorio vasto e culturalmente variegato. Come può descrivere l’essere vescovo della Chiesa di Istanbul?
«Il vicariato apostolico di Istanbul si trova in un territorio che da sempre è luogo di incontro e di scontro tra mondi diversi e culture diverse. La nostra comunità è chiamata a costruire relazioni fraterne; il nostro compito principale come comunità cristiana è quello di provare a costruire ponti, abbattendo i muri di separazione, a cominciare dal superamento di secolari pregiudizi che hanno minato le relazioni tra oriente e occidente. Questo compito richiede pazienza e molta umiltà. Un grande pastore della Chiesa di Istanbul, Angelo Giuseppe Roncalli (poi divenuto papa Giovanni XXIII, ndr), che ha guidato questa comunità dal 1934 al 1944 attraversando il difficile periodo della Seconda Guerra mondiale, ha lasciato un valido esempio ponendo le basi per il dialogo ecumenico e interreligioso e per lo sviluppo delle relazioni tra l’Occidente cattolico e la Turchia».
Come sono i rapporti con i fratelli ortodossi ed in particolare con il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli?
«Sono rapporti eccellenti, grazie ad una lunga tradizione che risale all’episcopato di Roncalli, e grazie anche a profeti dell’ecumenismo che hanno guidato il patriarcato ecumenico, primo fra tutti il patriarca Atenagora. Ad Istanbul e in generale in Turchia l’ecumenismo è avanti di almeno quarant’anni rispetto al resto del mondo, poiché qui noi cristiani siamo così pochi e viviamo in un contesto così difficile da essere in un certo senso quasi costretti a volerci bene, a collaborare e a camminare insieme».
A che punto è invece nella sua Chiesa particolare il dialogo con l’Islam?
«È un aspetto necessario e imprescindibile della nostra comunità cristiana. Esso avviene innanzitutto con la condivisione della vita quotidiana. È un dialogo della quotidianità, che poi è quello più efficace perché consente di rimuovere pregiudizi e costruire relazioni autentiche e fraterne. In Turchia ci sono tanti musulmani aperti e disposti a mettere in evidenza ciò che ci unisce. Anche da parte loro ci sono segni di apertura nei nostri confronti. Ad esempio, durante il mese di Ramadan l’invito all’iftâr, la cena che segue la giornata di digiuno: come cristiani veniamo invitati a condividere questo momento quale segno di fraternità e di pace. Anche il dialogo teologico produce frutti interessanti, grazie soprattutto all’impegno dei francescani e dei domenicani. Nella parte più colta della popolazione, sia tra i cristiani che tra i musulmani, c’è grande interesse a scoprire le ricchezze della diversità».
La comunità cattolica di Istanbul come sta vivendo il Giubileo della Speranza?
«Lo stiamo vivendo con grande entusiasmo. La nostra comunità vive di speranza. Il nostro luogo giubilare è il sito storico di Nicea, che è meta anche di pellegrinaggi internazionali. Il numero dei pellegrini che visitano la nostra terra sembra quest’anno essere sensibilmente in aumento. Da parte nostra stiamo organizzando anche alcuni pellegrinaggi a Roma, pur tra molte difficoltà, di tipo economico e non solo. Oltre 100 giovani del vicariato parteciperanno in estate al giubileo dei giovani. Intanto abbiamo vissuto un bel momento nelle carceri con l’annuncio del giubileo ai detenuti, nei cui volti abbiamo potuto leggere la speranza della liberazione. Siamo un popolo che vive di speranza, perché quando il presente delude, soltanto nel futuro riusciamo a trovare dei segni per poter andare avanti. E la nostra speranza non è basata sul nulla, ma è Cristo stesso: ecco perché è una “speranza che non delude”».
Come vivete l’acuirsi delle tensioni sociali in Turchia e la situazione di crescente instabilità in Medio Oriente?
«C’è grande preoccupazione per la stabilità politica della Turchia e per il futuro del Medio Oriente. I Paesi mediorientali sono fortemente interconnessi e facilmente subiscono conseguenze dai conflitti vicini. Il grande dramma dei rifugiati che fuggono dalle guerre è uno degli aspetti più preoccupanti, poiché la Turchia sta offrendo ospitalità a 4 milioni di rifugiati e migranti, e in tutti i momenti di maggiore tensione il numero di rifugiati e migranti rischia di lievitare, con gravi ripercussioni dal punto di vista della tenuta sociale del Paese. Il ruolo svolto finora dagli Stati Uniti d’America sta influenzando negativamente i rapporti di forza in Medio Oriente, mentre il ruolo dell’Europa, pressoché inesistente, non offre grandi possibilità per processi di pace. Dunque, siamo in un momento di grave stallo. Come cristiani preghiamo e chiediamo al Signore che i leader politici possano fermare la corsa al riarmo ed iniziare ad investire risorse e energie nella costruzione di un mondo pacificato, in cui i diritti delle persone vengono messi al primo posto e la giustizia divenga la premessa per una pace duratura».
Il vicariato di Istanbul
Il vicariato apostolico di Istanbul, eretto nel 1652, comprende poche migliaia di cattolici su una popolazione di alcune decine di milioni di abitanti, sparsi in un territorio molto vasto (con una superficie maggiore dell’intero Meridione d’Italia). In Turchia, Paese a maggioranza islamica, i cattolici rappresentano meno dello 0,1% della popolazione.
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