Il racconto di riscatto e redenzione di Joy Ezekiel, sopravvissuta ad oltre un anno di angherie, violenze e schiavitù. Una delle tante vittime della tratta partita dalla Nigeria e finita sulle strade delle nostre città. La sua storia è stata raccontanta da Maria Pia Bonanate. Vi proponiamo il libro “Io sono Joy” oggi, in occasione della Giornata mondiale del libro.
«Ho voluto raccontare la mia storia non per me, ma perché possa aiutare altri che vivono il mio stesso inferno». Joy Ezekiel ha 28 anni, è originaria della Nigeria ed è in Italia da quattro anni. L’approdo in Sicilia, poi un fugace passaggio a Bari, un anno di terrore a Castel Volturno, la rinascita a Caserta. È una delle tante vittime della tratta degli esseri umani. Lei ha avuto il coraggio e la forza di scappare da suoi carnefici. Di risorgere.
La sua esperienza è raccontata nel libro “Io sono Joy” di Mariapia Bonanate. «Questo lavoro mi ha aiutato a mettere il passato alle spalle, a riprendere la mia vita, a mettermi a capo di essa senza farmi frenare da quello che è stato». La prefazione è di papa Francesco che, dopo aver incontrato Joy, ha detto che la sua storia è «patrimonio dell’umanità».
Ha voluto dare voce anche a chi non c’è più, come Grace: 13 anni, diretta in Spagna ma morta in un lager libico per le sevizie subite durante uno stupro di gruppo durato ore. «Se sono sopravvissuta a tutto questo è perché Dio ha voluto che andassi avanti. Io sono viva e c’è un motivo perché lo sono».
Il viaggio
Quando lasciò Benin City, Joy aveva 23 anni. Partì con la promessa di venire in Italia per fare da badante e completare gli studi. Ha sempre tenuto alla sua formazione. Da bambina si intrufolava di nascosto in una scuola della sua città perché non c’erano i soldi per la retta.
A proporle il cambio di vita fu Imade, pastora pentecostale molto amica della sua famiglia. Joy era titubante, ma accettò. Il rito wodoo a cui fu sottoposta diede inizio alla sua tragedia. «Era l’11 febbraio 2016. Una data che ha sconvolto completamente la mia vita». L’atmosfera cordiale delle prime ore di viaggio, arrivati sul confine fra Nigeria e Niger, cambiò d’improvviso.
Di lì in poi furono corse sui motorini per sfuggire ai controlli, rapine, vessazioni, un tremendo passaggio nel deserto con tanti compagni di viaggio ingoiati dalla sabbia, l’arrivo in Libia e la permanenza nei campi di detenzione. Settimane di abusi e soprusi. Di violenze atroci, di morti e di angherie, di fame e di disperazione. Episodi cruenti raccontati capitolo dopo capitolo da Mariapia Bonanate.
Tra le cose più agghiaccianti lo stupro di gruppo da parte di alcuni arabi e la morte di Grace. L’abuso subito da Joy da un ragazzo che conosceva e in seguito al quale rimase incinta. Pagina dopo pagina c’è la traversata in mare, la consapevolezza di poter finire in fondo al Mar Mediterraneo. L’arrivo dei soccorritori, lo sbarco in Sicilia e il trasferimento a Bari. Credeva di aver raggiunto la terra promessa.
Un nuovo calvario
Cominciò «la mia seconda Libia». Quella donna che l’avrebbe dovuta accogliere come una madre, in realtà era una madam. La condusse a Castel Volturno e lì scoprì la triste verità. Joy avrebbe fatto la prostituta e da quel momento si sarebbe chiamata Jessica: «Mi hanno rubato anche il nome».
Si ribellò, chiamò in Nigeria, chiese aiuto alla famiglia. La mamma le rispose: «Mi dispiace. Non posso farci niente». La giovane non si rassegnò, scoprì di aspettare un bambino. Pensò che potesse essere un deterrente. Per gli sfruttatori era solo un grattacapo. La madam decise di portarla da un suo connazionale, in una palazzina di Castel Volturno. L’uomo chiuse Joy in una stanza. Lì dentro si consumarono momenti terribili, brutali, bestiali. Dopo quattro giorni quel corpo seviziato e provato da un rudimentale intervento chirurgico fu messo a disposizione dei clienti. Senza nessuna pietà.
La seconda Libia
«Non sbaglio a definire così l’Italia. Anzi, è anche peggio della Libia. Durante le violenze subite in quel periodo tra noi c’era sempre una connessione, una vicinanza, un aiuto reciproco. Io non pensavo di trovare la Terra promessa in Libia, ma in Europa sì. Arrivare in Italia, vivere così, senza nemmeno la solidarietà tra noi sfruttate, era ancora più atroce. Andare sulla strada tutti i giorni, fare sesso come una macchina», afferma con amarezza.
«In Libia la violenza è una mentalità. In Italia, che invece deve essere un Paese che protegge, un Paese migliore, venivo violentata ogni giorno e più volte al giorno e nessuno se ne accorgeva. Sentivo solo il giudizio e l’indifferenza. In Libia non c’è la speranza, qui c’è, perché c’è la tecnica, la civiltà. Eppure non era così. Era tutto un lager. Eravamo chiuse nella nostra solitudine, davanti all’indifferenza del mondo».
Joy è usata per azioni perverse, da anziani e giovani, padri che accompagnavano i figli, personaggi insospettabili, fruttando alla madam quasi 7mila euro. Settimane, mesi di incubo, ma il desiderio di scappare e riscattarsi resiste. Finalmente incontrò la persona giusta e chiese aiuto. La prelevò una macchina, aveva paura. La portarono in Questura a Caserta e lì raccontò tutto quanto aveva subito. Poi l’arrivo a Casa Rut.
L’inizio della nuova vita
«Non conoscevo la lingua, mi avevano solo insegnato a contare i soldi, non sapevo una parola di italiano. Quando mi portarono a Casa Rut e bussando dissero “Polizia!” mi spaventai», racconta oggi sorridendo. Per settimane non dormì a causa degli incubi: «I miei occhi mi facevano male». Le stette accanto suor Rita Giaretta, religiosa orsolina fondatrice della casa di accoglienza che ha dedicato la vita al recupero delle ragazze vittime della tratta. In uno slancio di affetto, nella cappella della comunità, Joy la chiama «mama». Comincia un percorso di redenzione: «Mi ha fatto capire che la vita può continuare. Da lei ho preso coraggio e forza. È stata la prima persona sincera che ho incontrato».
Joy ha poi ripreso gli studi e ha cominciato a lavorare nel laboratorio New Hope. Dopo la licenza media, ora studia per diventare operatore socio sanitario, «poi voglio trasferirmi a Roma per studiare Psicologia. Mi vedo sempre in Italia. Sono rinata qui, è il mio Paese».
La paura ritorna
In questo periodo Joy ha incrociato tante volte i suoi aguzzini: «Quando studiavo per la licenza media li ho visti spesso sul treno per andare a scuola, incrociavo l’autista che la mattina ci prendeva a casa e ci portava in strada. Una volta quando stavo andando al tirocinio alla cooperativa mi ha avvicinato un amico della madam che voleva farmi ritornare da lei». L’ultimo episodio nemmeno un anno fa, il più terribile: «Stavo andando a lavoro, era estate e mi trovavo nei pressi della Questura di Caserta. Ho visto il fratello della madam, sicuramente c’era anche lei nei paraggi, era fermo in macchina, stava masticando una gomma e guardava il telefono. Ho avuto tanta paura. Mi sono bloccata, non riuscivo a camminare. Piangevo, tremavo. Ho chiamato suor Rita. Sono ritornata a casa».
Quel giorno però accadde qualcosa di molto bello: «Ero sul letto in preda all’ansia, il cuore in gola. Squillò il telefono, era una suora che mi chiamava da Roma per dirmi che papa Francesco aveva accettato di scrivere la prefazione al libro. Quella notizia mi tranquillizzò. Gesù mi dava un segno: io sto con te, stai tranquilla».
Il legame con la famiglia
Joy ha provato a recuperare il rapporto con la famiglia, che per lungo tempo ha continuato ad insistere affinché ritornasse a prostituirsi. In una delle prime burrascose telefonate disse alla mamma: «Fammi vivere la mia vita. Se insisti perché torni indietro, devi preparare il mio funerale. Meglio morire da persona libera che morire a causa della schiavitù».
Il fratello, racconta Joy, diceva che «non ero migliore delle altre» e quindi dovevo «ritornare sui marciapiedi». Anche la sorella, nonostante Joy le avesse raccontato ogni singolo sopruso subito, le disse: «Ha ragione tuo fratello. Torna a lavoro, è una cosa normale». «Mi hanno detto tante cose che mi sono chiesta se fosse davvero la mia famiglia», aggiunge. Però, come racconta nel libro, «il male si vince con il bene», e quindi ha perdonato. Tuttavia «loro non mi hanno mai chiesto scusa».
Piaga da sradicare
Joy è arrabbiata perché non si fa moltissimo per fermare lo sfruttamento. Lei ha denunciato da anni, ma i carnefici sono ancora in giro. «Ci si ferma alle ragazze, non si va alle radici, dove nasce tutto questo dolore e orrore».
Una consuetudine che continua anche in tempo di Covid-19, nelle case e non più in strada. Joy è riuscita a risorgere, tante non ci riescono. Scompaiono nel buio. Come aiutarle? «Dobbiamo cercare queste ragazze perché non hanno niente. Non dobbiamo pensare che non vogliano essere aiutate. Bisogna superare le distanze. Andare come dei clienti, lasciare un biglietto molto semplice, in inglese. Scendere in questo mondo, facendo attenzione a coloro che fanno la spia. Se la ragazza è pronta per ricevere aiuto chiamerà come ho fatto io. Quando si è pronti per aiutare preghiamo per chiedere la guida di Dio».
In uno degli incontri con papa Francesco, il Santo Padre le ha detto: «Coraggio, va a scuola e non avere paura». «Questa parola riguarda tutti, non solo me. Dobbiamo avere coraggio, andare incontro – continua Joy – perché ogni volta che andiamo a dormire non si debba pensare che c’è ancora chi attende il nostro aiuto. E poi, dopo l’aiuto, come ha detto sempre il Papa mettere in atto gli altri tre verbi: accogliere, integrare e promuovere».
Non giudichiamo prima di conoscere storie come quella di Joy. Si smuovano le coscienze, la politica, si agisca affinché l’Italia non sia più considerata una «seconda Libia».