Dalle ore 16.00 alle ore 24.00 di martedì 5 maggio 1998, in una impressionante progressione di frane e smottamenti, a Sarno, lungo l’intera dorsale pedemontana che va da Episcopio a Lavorate, la montagna venne giù, con oltre 20 punti di frana, travolgendo e seppellendo sotto un mare di fango uomini, case, animali, strade. Contemporaneamente, alle ore 18.00, un’altra onda terribile e gigantesca di fango travolse la cittadina di Quindici, sul versante avellinese della montagna. Poco dopo un’altra colata raggiunse i paesi di Siano e Bracigliano, sul versante nord di Sarno. Terribile l’elenco dei morti: 137 a Sarno, 11 a Quindici, 6 a Bracigliano, 5 a Siano, 1 a San Felice a Cancello. Nell’anniversario di una tragedia immane, la testimonianza di chi, in quella notte terribile, perse gli affetti più cari.
La casa di Salvatore Galluzzo, la sera del 5 maggio 1998, fu travolta dal fango. 17 persone persero la vita. Sua moglie e i tre figli volarono in Cielo insieme ai nonni e agli zii
Le montagne che avvolgono Sarno, in questo periodo dell’anno, sono verdi e rigogliose. Come un abbraccio avvolgono il visitatore obbligandolo ad alzare lo sguardo per contemplarne la bellezza. Sono le stesse vette che il 5 maggio del 1998 misero in ginocchio la cittadina dell’Agro. Un misto di acqua e fango portò via case, auto, persone, vite. 137 le vittime. A viale Margherita, quella drammatica sera, due uomini in strada cercano di avere notizie. Il primo smottamento, nella frazione di Episcopio, c’è stato poco dopo le 16.00. Don Antonio Agovino e Salvatore Galluzzo parlano con i Vigili del fuoco. Il giovane diacono quel mese deve essere ordinato sacerdote. Salvatore invece ha 44 anni, è sposato con Giovanna Peluso e papà di tre figli.
Perché non sono scappati? È una domanda che dopo più di 20 anni ancora aggiunge dolore al dolore. Gli occhi di Salvatore sono segnati dalla sofferenza. «Davanti alla nostra casa c’erano i Vigili del fuoco – racconta –, ci rassicuravano, dicevano che andava tutto bene. Mio suocero aveva 20 anni più di me, anche lui ci tranquillizzava: era già capitato in passato che venisse giù un po’ di fango. Nessuno si aspettava che potesse crollare un’intera montagna». Nessuno. Né i cittadini e neppure chi aveva l’obbligo di presidiare e tutelare il territorio.
I fatti di quella sera
Quella sera Salvatore cambia più volte i vestiti bagnati dall’acqua e dal fango. A mezzanotte Giannina – così chiama affettuosamente sua moglie – gli prepara il caffè. L’ultimo. Ma nessuno dei due lo sa. Esce in strada e ne porge una tazza al giovane vigile del fuoco Marco Mattiucci, destinato da appena tre giorni al comando provinciale di Salerno.
Ha ancora il braccio teso in quel gesto di gentilezza e condivisione quando l’automezzo e il vigile, 31 anni, sono inghiottiti e trascinati via dal fango. Salvatore fa un salto indietro. Si volta e non vede più la sua casa, quella in cui viveva con i suoceri, con Giovanna e i tre figli: Rosario, 20 anni, Carmela, 16, Agostino, 10. La casa che quella sera aveva accolto anche i cognati e un’altra famiglia. 17 persone perdono la vita mentre una nube di polvere gli invade le narici. Poco distante perdono la vita anche lo stimato dottor Raffaele Catalano e sua moglie.
In strada c’è anche don Antonio, le loro abitazioni distano un pugno di metri, insieme scappano per una stradina laterale, raggiungono i genitori del sacerdote che si erano riparati nel cortile pensando ad una scossa di terremoto. La casa dell’attuale parroco della comunità San Teodoro Martire è lambita ma non travolta dalla furia del fango. «Abbiamo raggiunto via Ingegno a piedi», ricorda il sacerdote. Al buio, tra i rovi che laceravano la pelle, guidati da un istinto primordiale che salverà loro la vita.
A Salvatore bastano cinque minuti per capire l’entità della tragedia che lo ha colpito. «Con un terremoto puoi sperare di trovare qualcuno vivo. Cade una trave e trovi riparo. Con un alluvione no. Sono morti tutti soffocati dal fango».
La speranza tra le macerie
I giorni seguenti sono terribili, l’uomo non dorme, non mangia, non si allontana dai soccorritori che scavano tra le macerie ed estraggono i corpi. Uno dietro l’altro. A Salvatore il doloroso compito del riconoscimento. «Non ricordo nulla – dice –, non so dove sono stato, non ricordo chi mi ha lavato o portato un panino».
Non ha più pace. Una notte dorme da sua mamma, la successiva a casa di don Antonio, l’altra ancora da un amico. La sua vita è andare al cimitero. «Vivevo sulla tomba dei miei figli. Andavo lì anche di notte, fino a quando il sindaco (all’epoca Amilcare Mancuso) dice al custode di farmi una copia delle chiavi». L’uomo desidera vedere la moglie e i figli ad ogni ora del giorno e della notte senza dover chiedere il permesso.
I due anni successivi passano avvolti da questa nube di dolore e sgomento. Fino a quando un giorno al cimitero incontra Giuseppina. Non l’aveva mai vista, la donna è originaria di San Valentino Torio e gira tra i viali pregando per le vittime della frana. Il Signore gli sta dando un’altra opportunità. Otto mesi dopo si sposano. Dopo un anno e mezzo arriva il primo figlio a cui danno il nome di Rosario. Poi nasce una bambina che chiamano Carmela. Oggi i due figli hanno riportato il sorriso sul volto del papà. Quando Rosario ha vinto la sua prima medaglia in una gara di nuoto l’ha portata al cimitero, sulla tomba del fratello che non ha mai conosciuto e di cui porta il nome.
«Ho sempre creduto in Dio – dice Salvatore –. Solo Lui poteva salvarmi da un dolore tanto grande facendomi vivere altri 20 anni». E il Signore gli ha donato due figli con un grande talento per la musica affinché la gioia e l’allegria potessero ritornare nella vita di un uomo così duramente provato.