Cosimo Rega: l’ergastolano rinato

Da killer e camorrista affiliato al clan Tempesta di Angri, Sumino ‘o Falco ha trovato il coraggio di rialzarsi, grazie all’arte, alla cultura e alla bellezza.

Fine pena: mai. È questo il significato di ergastolo ostativo. Una condanna da togliere il fiato, un’ipotesi non sufficiente tuttavia a spegnere l’arroganza di un uomo accusato di appartenenza alla camorra (416 bis), associazione a delinquere di stampo mafioso e doppio omicidio. L’imputato è Cosimo Rega, meglio noto nell’ambiente camorristico di Angri come Sumino ‘o Falco, membro del clan Tempesta, affiliato alla Nuova Famiglia di Carmine Alfieri.

L’ergastolo. Siamo nel novembre del 1999 e l’imputato trentottenne è in piedi di fronte alla Corte d’Assise di Salerno, in attesa di conoscere il verdetto. Aria spavalda, sguardi impavidi ai giudici togati, alla giuria popolare e alla moglie. Sumino è certo della sentenza che di lì a poco sarà pronunciata. Nel mondo malavitoso in cui è abituato a vivere, anche l’ergastolo fa parte del gioco. Sta per andare in scena l’ultimo atto: il boss è pronto, come un attore di successo attende gli applausi del pubblico. «Non avevo fatto i conti però con un codicillo aggiunto dalla Corte – racconta Rega al Teatro Diana di Nocera Inferiore, a poche ore dall’inizio di uno spettacolo teatrale con altri detenuti di Rebibbia –, che prevedeva la cancellazione dall’albo anagrafico del territorio, la decadenza dalla potestà genitoriale e la perdita dei diritti civili e politici».

Sumino ‘o Falco per lo Stato non esiste più. Gli occhi adesso puntano il pavimento, qualcosa si è rotto dentro di lui. Una scintilla che vale una vita nuova. «Ricordo che dopo ho incontrato mia moglie e i miei figli (Sabrina e Damiano, ndr). Per la prima volta ho raccontato loro tutta la verità. Non c’è condanna peggiore che leggere la delusione negli occhi dei propri cari» continua Cosimo.

Le origini. Una verità pesante, con radici piantate nel passato, quando Sumino è ancora un ragazzino. Primo di nove figli, la segheria paterna gli sta stretta. Parte per Torino dove trova prima qualche lavoro da facchino, in nero e senza garanzie, ma ben remunerato – in una settimana il ragazzo guadagna più della paga mensile percepita ad Angri – poi l’assunzione alla fabbrica di marmitte Abarth. Cosimo ha trovato la sua strada, ma un incidente sul lavoro lo riporta in Campania: finisce con il braccio sotto una sega circolare e resta menomato.

Nel suo paese natio incontra Gelsomina, la donna della sua vita. La ragazza ha appena 13 anni, Rega 17. Scappano affinché le famiglie accettino il loro amore. Dopo poco la coppia è in attesa della primogenita, evento che li sbatte fuori di casa. Adesso Cosimo deve sposarsi e inventarsi un modo per mantenere la famiglia.

La delinquenza. È in un bar quando tre uomini preparano un furto d’auto a Roma. Serve un quarto che faccia da guardia. Sumino si propone e battezza la sua vita da delinquente. Seguono altre rapine. Finisce in carcere per la prima volta per 4 mesi, poi esce per assenza di prove. I soldi facili lo attraggono, così mette su una banda per rapinare bische clandestine. In uno dei colpi, muore una persona e arriva la condanna a 20 anni in primo grado, poi ridotta a 14 in Corte d’Appello e confermata in Cassazione.

La camorra. Nel 1988, Sumino è libero. Nel frattempo Gelsomina ha trovato un impiego alla Regione Lazio. Possono voltare pagina. Invece, l’ignoranza e l’intima appartenenza alla malavita spingono Rega di nuovo ad Angri. Questa volta entra nel clan Tempesta. E, presto o tardi, un camorrista deve uccidere. Succede proprio così. La prima vittima è Giuseppe, titolare di un deposito di gas, dedito alle rapine. ‘O capitano – amico di Sumino – convince ‘o Falco che quel cane sciolto gli sta togliendo la piazza.

Le mani si sporcano ancora di sangue. È il clan di Poggiomarino a chiedere un regalo: uccidere Scardone, pregiudicato colpevole di una serie di sgarri. In un deposito di San Lorenzo avviene l’agguato e Sumino lo finisce con un colpo di pistola.

La rinascita. «Non sarà un muro di cinta a dividere la nostra famiglia». Con tutto il coraggio granitico di cui solo le donne sono capaci, Gelsomina pronuncia questa frase al marito, all’indomani della sentenza di ergastolo. Quell’affermazione scava dentro Cosimo voragini di inquietudine e ricerca interiore: «Quelle parole cominciavano ad alimentare il bene che c’era dentro di me – spiega l’ergastolano –, ho cominciato a riflettere, a pensare. Era arrivato il momento di fare i conti con me stesso. Ho affrontato le mie colpe, le ho vissute nel quotidiano per cercare di recuperare i valori che avevo mortificato».

Il detenuto intraprende un percorso di studio, attinge a piene mani dalla cultura, aria pulita per il suo cuore. La bellezza lo salva, conferendogli gli strumenti per combattere la cultura della malavita. Il lavoro in carcere, il teatro, la preparazione universitaria sono linfa vitale. 

«Sono un poveraccio in confronto a mia moglie e alla sua capacità d’amare. Io non ho saputo amarla come lei mi ha amato» confessa Rega continuando a raccontare le soddisfazioni ricevute dai suoi figli. Damiano è uno stimato modellista, Sabrina lavora in un nido a contatto con i bambini. «È orgoglioso di loro?» interrompo. «Sì, moltissimo. E oggi posso dire che anche loro lo sono del papà».

Il film con i fratelli Taviani

«L’arte è la prima forma di libertà. A volte, l’unica» recita il trailer di Cesare deve morire, film diretto nel 2012 dai fratelli Taviani, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino e di 5 David di Donatello, candidato alla corsa come migliore pellicola straniera degli Oscar 2013 e poi escluso. Un docu-drama in cui i Taviani non si limitano a raccontare la preparazione del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti della sezione di alta sicurezza del carcere di Rebibbia, ma mettono a fuoco l’incontro tra un gruppo di uomini e l’arte, attraverso lo studio di un testo che li tocca da vicino. Nel ruolo di Cassio, Cosimo Rega e con lui tutte le storie e i drammi di chi porta scritto nel cuore: fine pena, mai.

Teatro-terapia

A Rebibbia, da più di 30 anni, i detenuti hanno la possibilità di seguire un percorso di riabilitazione grazie alla Compagnia Stabile Assai

Il teatro può essere una terapia importante per aiutare i detenuti ad affrontare un percorso di riabilitazione. Lo sa bene Antonio Turco, funzionario pedagogico della Casa di reclusione di Rebibbia. È il 1982 quando fonda la Compagnia Stabile Assai, tra i più antichi gruppi teatrali carcerari in Italia. Da allora, sono arrivati prestigiosi riconoscimenti, come il Premio Troisi nel 2010 e la medaglia d’oro del Capo dello Stato Giorgio Napolitano nel 2012.

«La gente viene a vederci pensando alle bestie a cui fanno fare anche teatro – spiega Turco – escono applaudendo e apprezzando la passione e la competenza degli attori». Attraverso la recitazione, i detenuti possono essere altro da sé – secondo il metodo Stanislavskij – si appropriano dell’identità del ruolo che interpretano. «Esiste un aspetto estetico importante – chiarisce il regista – in ogni interpretazione c’è una parte della loro storia personale».

Oltre 800 gli spettacoli all’attivo fuori dalle mura del carcere, tra cui anche “Un amore bandito”, portato in scena al Teatro Diana, a Nocera Inferiore, lo scorso 7 aprile, scritto e diretto da Antonio Turco insieme a Patrizia Spagnoli, teatro-terapeuta presso la Casa di reclusione di Spoleto, carcere di alta sicurezza. «Il laboratorio che proponiamo in carcere è molto simile ad uno tradizionale, con la sola differenza della modalità di costruzione del copione. Insieme ai detenuti scegliamo il tema, seguiamo la loro scrittura creativa e alla fine diamo forma allo spettacolo» racconta la criminologa clinica con 11 anni di esperienza anche in strutture penitenziarie femminili. «Il carcere difficilmente scalfisce il carattere delle donne. Se sono terribili fuori, lo sono anche dentro».

Mariarosaria Petti

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