La Ferrari dell’agroalimentare è l’agricoltura di qualità che corre (pur se un po’ meno), anche in tempi difficili come quelli segnati da Covid-19. E, d’altra parte, è stato un po’ tutto il comparto agroalimentare ad “aver tenuto”. E’ l’indicazione della capacità imprenditoriale di molte aziende, ma anche del ritorno ai consumi fondamentali al quale è stato costretto tutto il Paese. La cosiddetta Dop Economy, tuttavia, continua a svolgere il suo ruolo di portabandiera della migliore tradizione produttiva italiana. Anche se non deve essere confusa con tutto l’agroalimentare nazionale.
Per capire dimensioni e significato dell’eccellenza agroalimentare nazionale, basta leggere l’ultimo rapporto sulla Dop Economy prodotto dalla Fondazione Qualivita e da Ismea. Partendo da una constatazione: la prima indicazione che si coglie non è tanto il valore economico (comunque forte e che arriva fino a 16,6 miliardi di euro), quanto il significato che i prodotto Dop e Igp hanno per i diversi territori. La Dop Economy, in altri termini, coinvolge circa 200mila operatori e 286 Consorzi di tutela dei comparti cibo e vino sparsi per lo Stivale. Una ricchezza, come si diceva, non solo economica ma anche ambientale, culturale e storica.
Certo, poi c’è il giro d’affari, miliardario, che si traduce in 9,5 miliardari di export pari al 20% delle esportazioni nazionali di settore. Risultati – viene fatto notare -, resi possibili dall’impegno di tutto il sistema con azioni di solidarietà, attività di sostegno agli operatori, accordi con i soggetti del mercato e un continuo dialogo con le istituzioni che, riconoscendo la valenza strategica del settore, hanno supportato attraverso apposite misure la continuità produttiva delle filiere DOP IGP, capaci di esprimere un patrimonio economico dei territori italiani per sua natura non delocalizzabile.
Valori importanti (leggermente in caso nel 2020 rispetto all’anno prima), che hanno proprio nel radicamento nel territorio il loro punto di forza. Che, anche in questo caso come in molti altri, registra però differenze. Sempre il Rapporto infatti specifica: tutte le regioni e le province italiane registrano un impatto economico delle filiere DOP IGP, anche se si conferma la concentrazione del valore nel Nord Italia.
Fra le prime venti province per valore, ben undici sono delle regioni del Nord-Est, a partire dalle prime tre – Treviso, Parma e Verona – che registrano un impatto territoriale oltre il miliardo di euro. Anche se di fronte alla pandemia la reattività pare essere stata diversa. Nel 2020 solo l’area “Sud e Isole” mostra un incremento complessivo del valore rispetto all’anno precedente (+7,5%), con crescite importanti soprattutto per Puglia e Sardegna.
Grande prestigio, quindi, per l’agroalimentare nazionale di eccellenza. Che tuttavia non può e non deve essere confuso con la totalità del comparto (le commodities agricole esistono anche in Italia) e che, tra l’altro, ha a che fare con gli stessi problemi del resto del settore. Da una parte quelli congiunturali come l’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia; dall’altra quelli strutturali, come le difficoltà nelle logistica, nei trasporti, lungo la filiera. La Dop Economy, tuttavia, non deve essere pensata come altro dall’agroalimentare. Anzi, proprio i prodotti di altissima qualità hanno la funzione di trainare il resto del settore, a patto che siano ben gestiti, promossi adeguatamente in tutto il mondo e non limitati sempre a mercati di nicchia. In altri termini, i prodotti Dop e gli Igp devono essere come le Ferrari dell’agroalimentare, ma devono essere capaci di trainare molte utilitarie che, tuttavia, non devono essere sottovalutate e trascurate.