I nostri figli non sanno cosa sia la guerra. Hanno letto alcune pagine sui libri di storia, hanno visto dei filmati alla tv o sui social, insomma ne hanno sentito parlare.
La generazione che li precede, la nostra, ha vissuto intensamente le atmosfere cupe e tese della Guerra Fredda. Ma neppure noi sappiamo davvero cosa sia la guerra, anche se i racconti dei nostri nonni ci sono rimasti nelle orecchie come un monito e i ricordi ancora freschi della devastazione bellica hanno fortemente condizionato la nostra formazione giovanile.
Negli occhi e nella memoria conserviamo pure le immagini della caduta dei muri e della fine dei totalitarismi in Europa, sebbene il dolce tepore della speranza si sia rivelato presto effimero. Lo spettro del conflitto mondiale, infatti, è tornato con decisione a insinuarsi al centro dei nostri orizzonti con la guerra della ex Jugoslavia e poi si è di nuovo fatto annunciare dallo spettacolare attacco alle Torri Gemelle del 2001.
La paura collettiva ha marcato fin dall’inizio il terzo millennio. Immediatamente ci ha investiti la percezione che, mentre la contrapposizione fra le superpotenze Usa-Urss lasciava la scena al confronto tra Occidente e Islam, sullo scacchiere mondiale si ridisegnassero nuovi equilibri armati. Certo non ci aspettavamo il colpo di scena della pandemia Covid-19 a complicare ulteriormente le cose, ma per il resto l’angoscia non ha mai smesso di fare da sottofondo alla nostra quotidianità.
Ai nostri figli abbiamo consegnato dunque questo orizzonte e, per superare l’inquietudine nei confronti del futuro, abbiamo impregnato di illusorio benessere il presente.
I nostri adolescenti storditi, “bamboccioni” intrappolati fra le mura domestiche non sono che il risultato del nostro costante lavoro di iperprotezione. Abbiamo cercato di proteggerli da tutto, anche dalle “brutte” notizie, cercando di creare attorno a loro ambienti comodi, “coccolosi” e supercontrollati. Li abbiamo esortati, se non a parole perlomeno con i fatti, a non allontanarsi troppo dalle “certezze” del perimetro casalingo.
Oggi le immagini dei palazzi sventrati di Kiev ci ricordano che persino le case possono essere facilmente violate e nei volti atterriti della gente nascosta nel ventre della città, fra i binari della metropolitana, riconosciamo noi stessi. Hanno i nostri stessi trolley i cittadini di Kiev, i nostri stessi abiti, persino le nostre stesse facce: insomma, siamo noi. Noi e i nostri figli.
Nelle scuole si sta parlando di quanto accade in Ucraina, si fanno lezioni, si disegnano cuori e bandiere con i colori dell’arcobaleno. Ma ancora una volta ricorriamo agli esorcismi per scacciare lo spettro della guerra, senza comprendere fino in fondo che questa tragedia ci mette di fronte per l’ennesima volta alle nostre mancanze e alle nostre responsabilità educative tradite.
La pace non è un disegno colorato, ma un percorso lento e faticoso composto di tasselli quali la solidarietà, la tolleranza, lo sguardo etico e la propensione al bene comune. Una strada che si traccia a doppio binario, di cui soltanto una parte spetta alla politica. Per il resto è conquista che si ottiene attraverso l’educazione e la formazione dei cittadini di tutti i Paesi del mondo, a partire dalle famiglie e dai banchi di scuola.
Soprattutto essa è antitetica al narcisismo, cifra dominante di questo secolo. Un narcisismo che si esprime a cominciare dalle piccole cose e che esalta l’affermazione di un falso sé, fortemente isolato e anestetizzato rispetto alle altrui sofferenze. Concentrato sull’avere e sull’apparire, più che sull’essere. Negazionista rispetto al dolore. Inconsapevole persino del proprio disagio, perché accecato dai bagliori della raffinatissima scenografia virtuale in cui si muove.
Il dispiacere estemporaneo e le manifestazioni di solidarietà all’Ucraina sono prevalentemente reazioni emotive, prive ancora una volta di approfondimento.
Non permettiamo che la guerra venga raccontata ai nostri figli soltanto da TikTok! Non banalizziamo il nostro dissenso relegandolo al formalismo virale delle bandierine!
Rendiamo questa tragedia un’occasione per ritrovare noi stessi e i nostri ragazzi.
Silvia Rossetti
Sono d’accordo con voi di quanto la guerra possa essere un mezzo per dialogare con i propri figli. Anche se bisogna farlo in modo cauto e intelligente. Soprattutto se dobbiamo raccontare la guerra ai più piccoli, bisogna cercare di proteggerli il più possibile, adeguando il racconto alla loro all’età.
Per esempio ci sono alcune età in cui a causa dello sviluppo neuro-cognitivo del bambino, il racconto va del tutto censurato: è il caso della prima infanzia, cioè fino agli 8 anni. In seguito si può iniziare a parlarne, magari usando il come suggerimento i racconti o libri, con i bambini come protagonisti. Il bambino in questo caso riesce a immedesimarsi negli altri bambini, cogliendo il dolore dei protagonisti e sviluppando empatia e desiderio di fare qualcosa per aiutarli, perché sono bambini come loro.
In definitiva sono d’accordo con voi che la guerra non deve essere raccontata ai nostri figli solo attraverso i social, ma c’è bisogno di creare con loro un dialogo, uno scambio di opinioni che migliora noi stessi e i nostri figli.