Ah, la felicità…si può insegnare ai nostri ragazzi?

L’idea di felicità, che può essere insegnata e trasmessa ai nostri giovani, ha a che fare con la “scienza del sé”.
felicità - giovani
Foto di xxolaxx da Pixabay

Cosa pensano gli adolescenti della felicità? Come la identificano? Ritengono che sia possibile essere felici? Sono domande importanti sulle quali, forse, come educatori e genitori dovremmo soffermarci più spesso in un’ottica progettuale. Soprattutto dovremmo chiederci: la felicità si può insegnare ai nostri ragazzi?

Recentemente, in occasione della Giornata Internazionale della Felicità (21 marzo), diversi eventi hanno promosso riflessioni e diffuso dati sull’argomento.

In maniera particolare, un rapporto presentato dal Meyer Center for Health and Happiness insieme all’Università di Firenze ha evidenziato che ragazzi e ragazze spesso non riescono a dare alla felicità “una vera e propria definizione, caratterizzandola talvolta con la negazione di determinate sensazioni e condizioni oppure frequentemente anche con l’esplicitazione delle circostanze in cui ne fanno esperienza. Tuttavia ne sottolineano la rilevanza per le loro vite e la transitorietà. La felicità evoca soprattutto in loro l’idea di star bene con sé e con gli altri”.

Nonostante l’incerta definizione, i giovani identificano quindi facilmente come fonte principale di felicità la vita “sociale”, ovvero le relazioni con i pari ma anche con familiari e adulti. Mostrano di dare peso alla soddisfazione che provano nei confronti della propria vita.

Ovvio che i medesimi ambiti che li rendono felici siano anche motivo di ansia e frustrazione, quando le cose non vanno per il verso giusto. Pertanto l’approccio alla “felicità” si mostra “cauto” e “timoroso”, oppure a volte persino “provocatorio” e “ambivalente”. Essere felici spaventa e quindi per alcuni è meglio “investire” energie soltanto nelle emozioni, le spesso evocate “good vibes”, di sicuro più effimere ma senz’altro più “certe”.

La felicità è un lungo viaggio, una vera e propria scommessa con sé stessi.

Il rapporto Meyer ci informa che “gli adolescenti che risultano più felici si caratterizzano per essere più empatici, avere comportamenti prosociali, esprimere un atteggiamento cooperativo, avere maggiore autoconsapevolezza, saper gestire meglio le proprie emozioni, saper risolvere le situazioni problematiche, avere una buona immagine di sé, avvertire un forte senso di coerenza e significato della propria vita”. Alcune di queste caratteristiche corrispondono perfettamente a quelle che vengono definite “life skills”, competenze individuali sulle quali anche la scuola sta cercando di puntare in maniera più significativa.

Secondo Sandro Formica, docente di Scienza della felicità e delle organizzazioni positive alla Florida International University di Miami, per essere felici in maniera “duratura e sostenibile” occorre “allenarsi”.  L’idea di felicità, che può essere insegnata e trasmessa ai nostri giovani, ha a che fare con la “scienza del sé”. La definizione di felicità più pericolosa  – avverte il prof. Formica – è quella che la “banalizza”, ponendola alla stregua di “un’emozione da provare più a lungo possibile”.

La radice dell’infelicità giovanile, poi, risiede nel generale fraintendimento che riguarda l’idea di libertà, quest’ultima infatti oggi corre costantemente il rischio di sconfinare nell’arbitrio senza un quadro etico di riferimento.

Diviene spesso anche un paravento per poter rendere lecito tutto e il contrario di tutto, è infatti scissa dal senso di responsabilità.

Difficile essere felici nell’incertezza di cui si connota l’orizzonte futuro, difficile anche sfuggire alle seduzioni persuasive del narcisismo che costantemente fa capolino dai social e accettare di poter essere felici per come si è, al di là di qualsiasi “proiezione” o “idealizzazione”.

Difficile certo, ma non impossibile.

Bruno Munari, artista e designer italiano scomparso alla fine del secolo scorso, amava ricordare che “un bambino creativo è un bambino felice”. Coltivare la scintilla creativa che è presente nei nostri adolescenti, dunque, può essere un modo per insegnare loro la felicità. Altrettanto spazio andrebbe lasciato alla spiritualità, che spesso fa da humus al pensiero creativo e che permette di operare una ricerca di “senso” nel vivere quotidiano.


Silvia Rossetti

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