Le vigilie degli Anni Santi si somigliano un po’ tutte, con due temi ricorrenti da parte ecclesiale e dal versante civile. Per la Chiesa si tratta sempre di illustrare bene e a fondo il significato di un evento che, ricorrendo – almeno ordinariamente – ogni 25 anni, ha bisogno di riprendersi il centro di una non scontata attenzione.
Soprattutto per chi vive a Roma, Giubileo sull’altro fronte non significa altro che “apertura di cantieri” e “lavori in corso”, due attività ordinarie nella vita di ogni centro urbano e, tanto più, di una metropoli, totalmente, però, messe in conto all’immancabile voce “disagi” che scandisce la preparazione di ogni città.
Nessuna eccezione anche per il Giubileo prossimo venturo del 2025, il primo dopo l’Anno Santo del passaggio di millennio. Il primo di papa Francesco, dopo quello straordinario sulla Misericordia.
Spes non confundit, la speranza che non tradisce, è il titolo della bolla d’indizione, la carta di viaggio che segna la rotta di ogni Giubileo, a partire dal primo, convocato da papa Bonifacio VIII nel 1300. La speranza è, in ogni tempo, una rotta obbligata per tutta la Chiesa, e tanto più lo è oggi in un mondo scosso dal ritorno della guerra nel cuore dell’Europa e dalla feroce ripresa delle ostilità nello scenario perennemente insanguinato del Medio Oriente. Conflitti, e non solo, se si pensa che il flagello dell’epidemia è appena uscito di scena e una serie di altre sciagure, come la devastante alluvione in Spagna e le ricorrenti emergenze umanitarie legate all’emigrazione e alla povertà, delineano l’allarmante quadro di un’umanità smarrita e sotto attacco da più parti.
Non si può fare a meno di pensare che proprio l’intervallo di tempo tra il Giubileo del Duemila e quello ormai alle porte segna il drastico passaggio da un mondo all’altro: la speranza che ora si invoca per l’Anno Santo 2025 era in realtà più che una semplice prospettiva nel momento in cui, sotto la guida di Giovanni Paolo II, la Chiesa e il mondo si apprestavano a varcare la soglia del terzo millennio. In quella vigilia e poi in tutto l’anno della celebrazione giubilare l’umanità ha forse vissuto l’ultima stagione di una riconciliazione diffusa.
Non solo un secolo ma un millennio era alle spalle di quella prima fine d’anno del Duemila, nel momento in cui un papa già malato, a San Pietro, poneva il sigillo a una prolungata cerimonia di consegna da un tempo all’altro della storia.
Si chiuse una porta ma anche un’epoca. Il nuovo millennio era già cominciato e i taccuini sui quali appuntare eventi per la storia rimasero sorprendentemente vuoti: un anno avaro di grandi fatti, quel Duemila, soprattutto su uno scenario internazionale che, tra guerre, sommosse e l’abituale rendiconto di sciagure naturali o per mano dell’uomo, era solito lasciare un conto esoso. Quell’anno no. Un tempo di quiete. Una sorta di tregua sul fronte dei grandi eventi. Quasi un anno di riposo, come per un ritorno alla radice stessa del Giubileo: il rispetto della terra, il fermo alle armi, la ricerca di riconciliazione e di pace.
Venticinque anni dopo, il bilancio è sconfortante e amaro. In principio fu una feroce e tragica torsione della storia, l’attentato alle Torri Gemelle, l’attacco all’America e alle speranze di pace nel resto del mondo. Niente più, da quel momento, poteva essere come prima. E infatti quella tragica scia di violenze non si è mai arrestata.
Il Giubileo di Francesco segna ora un cambio d’epoca. Mettere la speranza a guida di questo nuovo tratto e del pellegrinaggio dell’Anno Santo è apparsa come una necessità invocata non solo dai cristiani ma da tutta la storia. È questo il vero, grande cantiere aperto sul Giubileo prossimo venturo. E si tratta, pensando alla predicazione di Francesco, di lavori già in corso.
Angelo Scelzo, già Sottosegretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali e vicedirettore della Sala stampa vaticana
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