L’accidia: il male di vivere

La tristezza dell’accidia consiste nell’incapacità di amare, di compiere il bene e di gioire per esso. L’accidioso, infatti, rimanda azioni e scelte, non prende sul serio doveri e responsabilità, opera con superficialità.

L’accidia può essere considerata un vizio di tutti e di tutti i tempi, esso è “il male di vivere” e quindi un vivere male. Spesso viene identificata con la pigrizia, ma l’accidia può manifestarsi anche come “fuoco divorante” che impedisce lo stare fermi. Il termine greco “akedia” indica l’assenza di cura o, meglio, è debolezza dell’anima, che provoca un suo abbattimento. 

Quando l’accidia domina la persona, qualsiasi cosa diventa pesante da compiere poiché ci si sente spenti, vuoti, oppure all’opposto, sembra impossibile fermarsi, restare in silenzio senza alcuna attività da compiere. Gli antichi la definivano come il demone di mezzogiorno, poiché è tipico di metà giornata e del mezzogiorno della vita.

Per Evagrio Pontico tra accidia (akedìa) e tristezza (lypē) vi è un forte legame, tanto che le considera come “compagne”; invece, la tradizione occidentale riunisce le due passioni in una sola. La tristezza, a sua volta, possiede molteplici cause: alcune possono essere legate alla struttura psichica della persona. Altre favorite da un clima esistenziale che condiziona emotivamente, altre invece molto più circostanziate, in relazione a fatti negativi mettono in scacco il progetto della propria vita.

La tristezza dell’accidia consiste nell’incapacità di amare, di compiere il bene e di gioire per esso. L’accidioso, infatti, rimanda azioni e scelte, non prende sul serio doveri e responsabilità, opera con superficialità. Egli rimanda sempre a domani ciò che potrebbe fare oggi. Il peccato di questo vizio è proprio la pigrizia spirituale, da cui può derivare anche la disperazione e la depressione. «L’accidioso, lungi dall’aggredire la radice del malessere e dall’affrontare il nodo dei problemi, divaga: preferisce il pettegolezzo alla ricerca delle cause» scrive il filosofo Natoli.

Il termine accidia compare solo tre volte nel testo della Vulgata, anche se l’Antico Testamento sembra conoscere bene questo vizio: il libro dei Proverbi descrive l’accidia come una forma di pigrizia invincibile (cf. Pr 24-26); il Qoelet come rifiuto della vita (cf. Qo 2), Giobbe esprime bene, invece, la tristezza nei confronti della vita diventata pesante (cf. Gb 3,3-26).

Questo vizio è di difficile individuazione, soprattutto quando si radica su ferite interiori, sulla mancanza di desiderio e sull’indecisione. L’accidia genera la paura di trovarsi soli, la paura del silenzio, la verbosità, l’ozio, l’agitazione interiore e tanti altri atteggiamenti negativi; ecco perché è un vizio capitale.

Combattere l’accidia risulta veramente difficile, può essere affrontata nel fervore della carità, riconducendo il proprio io all’unico vero desiderio buono ed eterno: il desiderio della vera conoscenza, che tende a Dio.

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