Joy di nome e di fatto. Ma anche hope, speranza, che è il nome della cooperativa New Hope nella quale ha lavorato subito dopo essersi liberata dalle catene della tratta delle donne.
Scorre tra gioia e speranza, senza tralasciare i lunghi periodi di schiavitù, dolore e sofferenza, la vita di Joy Ezekiel.
Vittima della tratta di persone, partita dalla Nigeria con l’obiettivo di fare la badante di anziani in Italia, si è ritrovata per strada.
La realtà è stata diversa. Abusata e seviziata durante il “grande viaggio”, è finita su un barcone.
Approdata sulle coste del Bel Paese, è stata costretta a prostituirsi sulle strade del casertano. Ma lei oltre ad essere Joy, e a non perdere la speranza, è anche forte, caparbia, disposta a tutto pur di riscattarsi dalle catene della schiavitù a cui era stata destinata.
Così fugge dai suoi carnefici e trova suor Rita Giaretta. E lì, a Casa Rut, a Caserta, comincia la sua nuova vita. Un racconto drammatico diventato un libro, Io sono Joy, scritto da Mariapia Bonanate. Una prima parte della vita di cui abbiamo raccontato anche in passato.
La seconda parte dell’esistenza di questa tenace e solare trentenne si sviluppa sotto tutt’altra luce. Oggi vive a Roma, si è diplomata e sposata con Andrea. E la speranza non l’ha mai persa: «La speranza ha sempre camminato con me, anche se non la vedevo. Ogni respiro, ogni parola che esce dalla mia bocca, è speranza, ma non è mai un percorso facile».
Joy, quindi, non hai mai perso la speranza? Nemmeno nel periodo più brutto della tua vita, quello del viaggio verso l’Italia e della schiavitù della strada.
«No, non l’ho mai persa. Sicuramente ho dubitato, ma non persa. Il periodo più critico è stato quando ero nei lager in Libia. C’erano dubbi e rabbia, mi chiedevo “può la vita finire così?”. Ma la speranza non l’ho persa perché anche dentro quei dubbi lottavo e mi dicevo: “Ci sarà qualcosa da fare”. È stato così».
C’è un episodio in particolare che ci puoi raccontare?
«Sì, è fatto di due momenti: morte e vita. Mi riferisco a Grace di appena 13 anni. Eravamo a Tripoli. Ci hanno stuprato per tutta una notte, eravamo cinque ragazze e loro erano in sette. Ci hanno tolto tutto. Dopo tre giorni, Grace non ce l’ha fatta. È morta. Prima di morire mi disse “prega per me”, poi si alzò per andare in bagno. Barcollava, non ce la faceva a stare in piedi. Entrò in bagno e sentimmo un urlo. Corremmo da lei, la ritrovammo riversa a terra, senza vita, ma con le lacrime a rigarle il volto. Vedendola morta mi sono detta “perché lei e io no, perché?”. Da quel momento ho fatto di tutto per vivere, lottando anche per lei. Lei ha perso la vita e la speranza, ma mi ha dato tanta forza».
Quando hai sentito arrivare la svolta e hai avuto la certezza che davanti a te c’era un’altra e una nuova strada?
«L’incontro con suor Rita Giaretta. Il suo “benvenuta” sulla soglia di casa, la croce sulla testa, la doccia e la prima dormita in un letto vero, sicuro. Dopo più di un anno di inferno, quella mattina mi sono svegliata per vivere una nuova vita e far vivere la speranza che c’era dentro di me. Tra i tanti episodi, quell’incontro rimane vivo. Una sensazione rafforzata dall’incontro con le altre ragazze che vivevano in quella casa. Erano tutti felici, alcune con i bambini. Dopo pranzo ci ritrovavamo in cucina mentre lavavamo i piatti. Tutte raccontavano le loro storie. Quel parlare ti faceva aprire e capire che non eri da sola. Per me ogni singolo incontro ha significato qualcosa: dimostra l’amore e la speranza, la forza di andare avanti».
Quanto è stato importante studiare, diplomarti, diventare autonoma per poter vivere pienamente questa seconda stagione della vita?
«È stato meraviglioso. Studiare è sempre stato un mio obiettivo. Nel mio Paese non ho potuto continuare gli studi. Poi qui in Italia, quando sono rinata grazie all’incontro con le suore, loro mi hanno stimolato a riprendere lo studio. È un sollecito che fanno a tutte. Trovare questa via ha significato confrontarmi con un metodo e con materie diversa, la scuola italiana è diversa da quella del mio Paese. Ho preso il diploma di terza media, la maturità e frequentato un anno come mediatrice. Poi ho avuto l’opportunità di svolgere il Servizio civile a Roma, occupandomi di anziani e senza tetto. In questi mesi ho ricordato quanto facevo anche nel mio Paese e, su consiglio di suor Rita, mi sono iscritta ad un corso di OSS e ho conseguito questo titolo. Ora sono operatrice sociosanitaria, ma il mio sogno resta fare la psicologa».
Hai anche incontrato l’amore. Lo scorso ottobre il matrimonio con Andrea Francalanci. Come vi siete conosciuti?
«Nel 2022. Lui lavora al piano terra dove abitano le suore qui a Roma. Lui è un ingegnere. È stato un incontro provvidenziale. L’ascensore del palazzo era rotto e noi dovevamo salire a piedi. Un giorno dissi “Beati loro che stanno al piano terra”, rivolgendomi a chi lavorava in quell’ufficio. Incontrarci è stato un dono. Se l’avessi dovuto cercare non avrei saputo trovare di meglio».
Invece all’altare ti ha accompagnato suor Rita.
«Lei è mia mamma, è la mia famiglia. È tutto. Era ovvio. Era lei quella giusta. Andrea è andato da lei per chiedere la mano. Fu un momento bellissimo e dolcissimo».
Una testimonianza di gioia che condividi con piacere?
«Racconto per amore. Per me è come una missione. Il mio vissuto è molto prezioso e non sempre lo si può condividere con tutti. Ma se lo faccio è perché quella persona, quel gruppo, quel giornale meritano davvero. Perché so che ascoltando la mia storia qualcuno potrà trovarla di aiuto. Quando racconto è come se donassi un pezzo di me, come se condividessi me stessa. È una gioia condividere, ma quando so che non va sprecato. Per me è anche un dovere aggiungere la gioia di oggi alla storia di sofferenza che ho vissuto».
Nel 2023 hai ricevuto il “Women in Cinema Award” alla Festa del Cinema di Roma. L’hai dedicato a qualcuno?
«L’ho dedicato a Grace e a tutte le ragazze che hanno vissuto la mia stessa esperienza o la stano vivendo ancora. E l’ho dedicato a me stessa perché non ho smesso mai di sognare».
Se dovessi dare un nome e un volto alla speranza chi indicheresti?
«Se dico il mio volto è troppo?».
A chi vorresti dire grazie per quello che oggi sei e per quello che vivi?
«Prima di tutto dico grazie a me stessa perché avrei potuto smettere di lottare per la libertà, rifiutare la speranza e l’aiuto delle persone, non riuscirci. Ho incontrato tanti ragazzi e ragazze che vivono la sofferenza, ma non ce la fanno ad andare avanti nonostante l’aiuto. Mi guardo allo specchio e dico “per fortuna ce l’ho fatta. Grazie Joy per essere andata avanti, per esserti amata, per aver lottato e avuto pazienza. Grazie perché non ti sei chiusa in te stessa”.
Poi grazie a suor Rita che non mi ha mai abbandonato e mi ha sempre tenuto per mano, nonostante la mia testardaggine. E, infine, a Letizia Cruppi, la mia psicologa, una professionista veramente in gamba, che mi ha capito molto bene. Per cinque anni ho rifiutato questo aiuto perché per noi in Africa andare dallo psicologo è una “cosa da matti”. Una volta a Roma ho rifiutato di andare dagli psicologi, perché avevo già raccontato tanto. Volevo qualcuno che mi aiutasse e mi capisse veramente. Non volevo solo raccontare. Volevo aggiungere qualcosa alla mia vita».
Salvatore D’Angelo
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